domenica 4 aprile 2021

La Casa delle Madri di Daniele Petruccioli

 

 


Mi sono deciso a scrivere due righe su questo romanzo che mi ha immerso così bene in una realtà non mia e che mi ha tenuto lì sotto sino a non riuscire più a emergere per riprendere fiato. La casa delle madri mi ha preso per diverse ragioni. La prima perché è scritto in un linguaggio libero, libero di essere quello che gli pare, magari anche fuori dalla corrente minimalista di questo miniclassicismo di regole che imperversa tra chi oggi ti vuole insegnare a scrivere e chi subisce riverberando i nuovi canoni con un fanatismo da neofiti. Il ritorno all’ipotassi e a un dettato della tradizione quando ce vo’ ce vo’. Solo che il linguaggio è spesso colto, ma mai prolisso e il discorso narrativo si articola come un contrappunto di variazioni che non annoiano mai. Trovo poi coinvolgente la combinazione di un tema come il doppio e il mito dell’òikos. Sono infiniti gli esempi da citare per il primo. A me viene in mente Medardo che in lotta con se stesso ritrova la sua unità solo alla fine. I due gemelli, parte di un’unica origine, vengono divisi dai sensi di colpa. Della loro intima sofferenza si fa carico la casa, personificazione della famiglia. La casa è umanizzata, vitale, ma le case vivono solo in presenza degli esseri umani che vi abitano. Senza di loro cessano di esistere. Con nuovi inquilini sono un’altra cosa e perdono ogni legame con il passato. Le decorazioni, le parti architettoniche, le travature che prima davano vita alla casa diventano solo antiquaria perché hanno perso lo spirito vitale che erano i ricordi delle persone. Ne assorbiranno altri, ma nulla sarà come prima. La casa vive e respira, è organismo vivente con i suoi odori e le sue fragilità. Le donne che la abitano hanno un legame simbiotico con essa, come da tradizione, ma una in particolare rifiuta di sottomettersi alle regole che la vorrebbero relegata nel gineceo e rinuncia a qualcosa, ma non a tutto di sé. Questa sua disobbedienza è forse l’hybris che ha conseguenze di lunga durata nei rapporti all’interno della famiglia, il cui legame si smaglia e si rammenda a fatica, per trovare infine un giusto equilibrio, il rinnovamento naturale nel ciclo di tutte le cose mortali.

venerdì 24 luglio 2020

Un racconto inedito


altalena-storia-vezzani

di Giordano Vezzani


Si trovò a passare di lì, quasi per caso. Gli venne spontaneo accostare e scendere per guardare meglio. L’edificio principale sembrava essere rimasto sostanzialmente lo stesso, mentre tutto il resto era stato preso e calato nel traffico di una città rumorosa e affollata. Gli spazi verdi erano stati sostituiti con la solita sequela di palazzi anonimi dagli infiniti terrazzi privi di vita.
Il vicino parco della Rimembranza aveva perso la protezione di un’alta cancellata di ferro battuto dal sapore déco, così come le siepi di bosso e ligustro che lo circondavano. Ora gli appariva come una landa deserta tra gli alti cipressi rimasti e qualche leccio sfoltito al limite della sopravvivenza. Dove c’era la cascata tra i massi di calcare di grotta, ora si vedeva un alto muro di cemento armato con scritte e sovrascritte di artisti adolescenti amanti della vernice spray. Niente a che fare con i murales. Chissà mai se Banksy sarebbe mai passato da queste parti! Altamente improbabile, almeno quanto che possa nascere un vulcano nel centro del Golfo.
Giordano si ricordava perfettamente degli anni dell’asilo. Le suore cappellone gestivano la scuola materna non molto distante da casa sua in quello che era collegio, asilo, convento, santuario. Quel breve tragitto, piazza Ricasoli, via Parma, Parco della Rimembranza, era rimasto indelebile nella sua memoria. Oggi avrebbe dovuto resettare tutto e fare un upgrade.
Il parco si estendeva sulla superficie di una collinetta e aveva tanti scalini e ancor più viottoli intersecati a formare una rete di labirinto. Tra tutti gli alberi primeggiavano i grandi lecci primitivi e i cipressi centenari. L’austerità del luogo la recepiva allora attraverso un senso di disagio, di deferente timore che lo faceva stare sempre accanto alla mamma e a sbirciare di continuo qua e là in attesa di un qualche evento, di provare paura.
C’era anche una grande vasca, dove galleggiavano erbe, ninfee e tutte le porcherie che i ragazzini vi gettavano. In una certa stagione l’acqua si intorbidiva e virava al verde scuro. Allora Giordano diventava un assiduo frequentatore del parco. Le tante macchioline nere che si muovevano a rapidi scatti erano naturalmente girini. Mollava da qualche parte sia il cestinetto della merenda, di giunchi intrecciati, con il suo simbolo personale, quattro palle celesti in un quadrato, sia il grembiule a quadretti anch’esso personalizzato con lo stesso ricamo. Giordano si dava da un gran daffare a prenderne il più possibile con le scatole del formaggino Mio o con le casette di plastica ripiene di cioccolato dal tetto messo a coperchio.
Madre Teresa era una suora giovane, non bella e con lo sguardo duro e vigile. I suoi occhi erano sempre il punto di riferimento della giornata. Un libro era lasciato aperto su un leggio di fronte ai banchi per quella che era una sorta di dottrina permanente. I banchi, gli stessi di legno dipinto di nero, erano dello stesso tipo che avrebbe ritrovato sino al ginnasio. L’Inferno veniva rappresentato con un coacervo di diavoli e diavolerie in un’orbita di rosso. Ovviamente si sprecavano code sagittate, zoccoli e forconi incombenti. L’illustrazione era fatta per terrorizzare e con lui ci riusciva piuttosto bene. Per gli anni a venire i suoi incubi si sarebbero animati di un diavolo rosso con la barbetta rossa e due corna caprine, rosse pure loro. Giordano spalancava gli occhi e tendeva gli orecchi alla voce cupa, cavernosa di suor Teresa. Non sapeva però allora di essere altamente suggestionabile.
Le attività che la sua memoria privilegiava erano quelle all’aria aperta, intorno alle tartarughe del giardino, oppure attorno alla suora che intonava Santa Lucia e dava alle fiamme i fioretti dei bambini. Madre Teresa distribuiva sempre nuovi fogli con il loro nome al centro. Dopo aver fatto disegnare una cornice di fiorellini, si faceva promettere che avrebbero compiuto una buona azione ogni giorno e colorato un fiore in corrispondenza della cornice. La suora raccoglieva poi le pagine finite, con i fioretti che dovevano essere bruciati, perché in questo modo sarebbero saliti in cielo dalla Madonna e l’avrebbero resa felice. Così lei diceva.
Il refettorio era una tavolata a ‘U‘ per tutto il salone. Al centro sedevano la madre superiora e le maestre. Giordano odiava la minestra di verdura e gli immancabili pezzi di cipolla bianca che rifilava al rotondeggiante compagno, altrimenti c’era il pavimento. Quel suo compagno era solito mettersi le dita nel naso e passarle poi in bocca. Una volta gli chiese perché mangiava le caccole. Lui rispose offeso che quelle non erano caccole, ma una medicina che la sera prima la mamma gli aveva messo nel naso. Vicks Vaporub. Sembra che quella mamma facesse un gran uso di questa medicina che doveva infilare a palettate nel naso del figlio.
Il pomeriggio bisognava dormire per forza. Madre Teresa rabbuiava la stanza. Impostava tutti, uno per uno, a braccia conserte sui banchi, a capo reclinato e poi sorvegliava dalla cattedra. Giordano guardava il suo vicino ciccione e lo invidiava perché lui si addormentava subito e si risvegliava solo al momento di uscire. Lui non ci riusciva mai. Cercava di far passare quelle due interminabili ore scambiando bisbiglii, ammiccamenti e altri segnali con altri nelle sue condizioni, tuttavia la suora inesorabile li induceva al silenzio e all’immobilità. Il casino scoppiò quando durante un’ora di riposo Giordano si prese un violento schiaffone che gli lacerò il labbro. Il casino fu quello che fece sua madre e da allora, dopo molte scuse, baci e qualche lacrima, lui godette di maggiore considerazione e libertà di movimento.
Le recite tenevano tutti su di giri. Si preparava la scena, si studiavano le poesiole, le canzoni, i movimenti segnati col gesso. Giordano ancora conservava una vecchia foto di uno di quei momenti. Ogni volta che sua madre gliela mostrava rammentava lo stesso fatto con le stesse identiche parole. Ad un certo punto della recita tutti i bambini avrebbero dovuto lanciare un garofano verso la superiora. Lui, da sempre distratto, era rimasto seduto e quando si accorse di quello che stava succedendo, si alzò di scatto. Ormai solo e anacronistico gettò il fiore dicendo: “Buon Natale alla madre superiora!” La sua voce solista risultò come l’eco del coro precedente di tutti gli altri compagni e l’effetto fu un clamore di risa che lo immobilizzarono sul proscenio fino a che qualcuno non lo riportò al suo posto.
Anche i preparativi del Carnevale erano molto attesi e cominciavano assai prima. Bisognava preparare i coriandoli e la Pentolaccia. Era bello sentirsi importanti e collaborativi. L’esito della festa dipendeva da loro. Sulla terrazza le suore avevano lunghe strisce colorate da fare a pezzetti. Le piccole mani confezionavano coriandoli varianti dal millimetro a diversi centimetri. Era un lavoro stancante, ma più si stancavano e più pregustavano il momento in cui avrebbero lanciato i coriandoli. Ognuno consegnava a suor Teresa ciò che potesse essere messo nello scatolone della Pentolaccia. Chi portava noci, chi castagne, chi bagiggi, caramelle, giocattoli, fumetti. La Pentolaccia appariva enorme e di grande effetto, tutta ricoperta di carte colorate e decorazioni. A manovrare la corda nella carrucola era una suora, tanto buffa con quel movimento su e giù accompagnato da gridolini, rossori, sbuffi, da un certo disordine della persona. Il giorno della Pentolaccia vedeva il pubblico della recita: tutte le suore, qualche genitore e quelli delle elementari, spettatori passivi e forse anche un po’ invidiosi, perché a loro non toccava nulla. Ansiosi e seduti sulle panche i bambini dell’asilo venivano bendati a turno e portati nel posto prestabilito per colpire con una mazza, del tipo da baseball, la Pentolaccia. Era gratificante sentirla cedere, indovinare i tonfi degli oggetti sul pavimento, il rimbalzare secco delle noci, ancor più ancora della raffa finale, proni a braccia aperte nello slancio.
Giordano ebbe un sussulto. Sentì il colpo secco delle ruote di uno skateboard e un’ombra colorata sfrecciargli accanto. Altri ne seguirono a ruota e temette che la mandria potesse travolgerlo. Invece il gruppo urlante si diresse per una stradina laterale perdendosi in essa con l’effetto Doppler. Pensò ai suoi malinconici carrettini fatti di tavolette, chiodi e cuscinetti che lo zio meccanico gli regalava per le feste. Allora le sue scarpe avevano sempre i tacchi consunti per il troppo frenare. Si guardò istintivamente le scarpe.
Risalì sull’auto e si diresse altrove.

sabato 22 febbraio 2020

Il senso dell'amicizia e la funzione del Tempo


Riapro il blog dopo molto tempo. Queste pagine sono così poco frequentate da me e dai lettori che mi ricordano un diario segreto, di quelli che si consultano nelle fiabe di magia solo nei momenti speciali. Dovrei esserne dispiaciuto, invece penso che se dovessi usare il mio tempo per gestire il blog e intrattenermi con i followers, avrei meno tempo da dedicare alla scrittura e alla lettura. Ci sono blogger che conducono una vita frenetica per questo e chissà se riescono a dormire. Spero che abbiano il loro bravo interesse a vivere la vita davanti a uno schermo, altrimenti la nevrosi e la scimmia da web li prevaricheranno.
Se, però, ho deciso di scrivere una pagina una ragione speciale ci sarà! Infatti! Mi è capitato di leggere un romanzo uscito lo scorso autunno, più o meno in contemporanea con il mio Tu l’hai visto Easy Rider?. Si tratta di L’essenza stessa di Alessandro Brusa.


Il libro mi è piaciuto per diversi motivi. Intanto perché si fa leggere. Il linguaggio è ben dosato tra descrizione e narrazione e soprattutto dialoghi, che rendono scorrevole la lettura, nonostante l’introspezione continua dei personaggi. La loro caratterizzazione si accumula nel tempo attraverso il loro agire, il loro esprimersi e non è imposta dall’autore. Io l’ho letto tutto d’un fiato e ho goduto della storia narrata, seppure a volte inverosimile per come si spostano nello spazio e nel tempo i protagonisti, convinto che il mondo reale ci possa sorprendere allo stesso modo.
Tuttavia la cosa che mi ha colpito di più è l’affinità tra il mio romanzo e questo di Brusa nel trattare l’amicizia tra due persone che parte dalla prima gioventù sino alla mezza età. Ric e Luca sono entrambi eterosessuali come Manu e Jacopo sono omosessuali. Quanto c’entri la sessualità nella loro amicizia è tutta una scommessa. L’amicizia, quella vera, dovrebbe travalicare il sesso, ma implica inevitabilmente un’attrazione verso l’amico, che sia di natura psichica o “a pelle”.  Il sentimento dell’amore nell’amicizia, secondo me, ha una complessità tale che nulla ha da invidiare al sentimento dell’amore nel senso più comune e, a volte, i confini sono piuttosto sfumati. I mie protagonisti si amano, come amici, come fratelli. Hanno bisogno della fisicità, di un contatto e della presenza dell’altro. Di sicuro Ric lo richiede per la sua maggiore fragilità rispetto a Manu. Ric poi rispetto a Luca ha una sessualità più “aperta”, come a dire che la loro somiglianza finisce nel momento in cui comincia la loro individuale personalità, quella che ci rende tutti unici, diversi gli uni dagli altri.

Un altro aspetto che accomuna questi personaggi è poi la personale recherche. Solo Manu sembra avere trovato nel lavoro di medico un senso alla propria esistenza. Gli altri tre devono attraversare tutto il romanzo per arrivarci. Alessandro Brusa fa compiere ai propri personaggi un percorso a ritroso nel tempo per ritrovare ciò che realmente conta nella vita, l’essenza di ciò che conta nei rapporti umani, che è poi quello che a sua volta dà senso a tutto il resto. Non è facile “esserci” per gli altri. Ѐ qualcosa che si impara vivendo e a volte ritornando in modo ciclico sui proprio errori.
A me ha fatto anche molto piacere vedere come due generazioni a confronto, come quella dei due autori, in fondo esaltino la stessa cosa: l’amicizia. Non che il tema sia nuovo, basti pensare a Due di due di Andrea De Carlo. La differenza magari è nella Storia perché anche i sentimenti e i moti dell’anima si storicizzano. Nel mio romanzo quel sentimento, così forte, è il collante  sentito e condiviso da gran parte di una generazione degli anni Sessanta. Un fenomeno che poi si è spento nelle lotte politiche, più reali, che hanno spazzato via ogni ideale di cambiamento favolistico del mondo e di una umanità finalmente ravveduta. Nei decenni più recenti, e forse anche nel romanzo di Brusa, il senso dell’amicizia è stato più legato al gruppo ristretto o al sentire individuale, che a un sentimento generale.
Naturalmente ci sono altre tematiche in entrambi i romanzi che li fanno scivolare in corsie di scorrimento separate. Lascerei, però, al lettore il piacere di scoprirle. Alla prossima.

domenica 13 ottobre 2019

Un'esperienza più che una lettura: Lo scopatore di anime di Pablo T .

La maggior parte dei blog letterari propongono regolarmente dei libri da leggere e si occupano di recensioni. Per i loro curatori è un’attività a tempo pieno e in quasi tutti i casi non sono amministrati da una sola persona, bensì da diversi collaboratori, sino a staff strutturati in organigramma aziendale. A quel punto il blogger è un vero mestiere e il lavoro, come è sempre giusto, dev’essere retribuito, magari attraverso inserzioni pubblicitarie.
Questo blog, nato in funzione di un romanzo specifico: Tu l’hai visto Easy Rider?, non funziona in questo modo.
Qui state leggendo una pagina aperta di diario, dove il curatore esprime delle idee perché siano il seme di una bella chiacchierata e nulla di più. Qui non si vuole né pontificare, né insegnare, semmai apprendere e sperare di crescere.
D’altra parte qualche volta potrà capitare che in queste pagine siano focalizzati alcuni testi, come quello di cui sento il bisogno di scrivere di seguito.
Ho scelto di segnalare il romanzo di Pablo T, dal titolo Scopatore di anime, per la sua particolare forza espressiva ed evocativa che, per il gusto della ripetizione ossessiva di varianti, mi ricorda l’orfismo di Diego Campana. Al di là dei giudizi che si possono dare, il romanzo ha il pregio di non lasciare nessuno illeso. D’altra parte è difficile non essere impolverati se un tornado ti è passato addosso. Sì, perché la sensazione che si prova è qualcosa che ti frulla ben bene la mente in un turbine di parole e di sensazioni.
Già dal titolo provocatorio, Lo scopatore di anime, Pablo T ti fa capire che la lettura non sarà una passeggiata. Questo non è un libro consumistico, semmai ti consuma nelle intenzioni, violentandoti fino alla consapevolezza di chi sei, del mondo in disfacimento che ti  circonda. Comunque quel titolo lo si voglia intendere, seducente promessa di un godimento erotico per l’anima o del suo stupro, il risultato non cambia: nulla sarà come prima se avrai aperto gli occhi, soprattutto se sarai finalmente consapevole di chi, invece, sinora ti ha scopato il cervello.  
Lo scopatore di anime, a mio avviso,  mostra tutte le caratteristiche stilistiche presenti nei romanzi successivi dell’autore, a cominciare dall’uso volutamente eccessivo delle figure retoriche tipiche della poesia. Infatti la prosa di Pablo T è prosa d’arte, da gustare ad alta voce, nella quale il linguaggio diventa a tratti poetico, con vere e proprie rime interne e allitterazioni, che si rincorrono alla ricerca vana del versus per poter prendere fiato e andare finalmente accapo. A tratti invece il linguaggio si fa prosastico sino a raggiungere toni da postribolo. E’ l’alternanza di modi espressivi di un amplesso col lettore che ritarda di continuo l’orgasmo per prolungare il piacere. La prosa d’arte alla fine del libro diviene poesia tout court ed è quindi libera finalmente di dar vita, nell’epilogo, al proprio sfogo.
La lingua che si avvale di più registri espressivi, dall’aulico al triviale, ha ascendenti illustri nel Simbolismo francese e soprattutto nel suo anticipatore, Baudelaire. Pablo T sembra avvalersi non di un solo albatros, bensì di un intero stormo, tanto le parole scorrono come un fiume in piena o l’acqua di una cascata che impedisca persino di riprendere fiato. Le figure retoriche si inseguono a ritmi serrati, dalle più ampie e ricche similitudini, ai paragoni, alle metafore, alle metonimie, sino ai simboli, che non sono mai facili da decodificare per analogia, lontani da quelli immediati d’uso corrente e che pertanto richiedono al lettore la sua partecipazione per reinventare la realtà ed attribuirvi significati nuovi. Non è forse questo il senso proprio delle Correspondances baudelariane e del Simbolismo?
Così quando nel romanzo la prosa si fa poesia, i significati si moltiplicano, la semantica delle parole si amplifica, si arricchisce di nuovi sensi e con essi nuove emozioni, nuovi orgasmi per l’anima.


giovedì 26 settembre 2019

Ripresa dopo l’assenza


Mi decido a riaprire un’altra parentesi sulla mia relazione con la parola scritta e lo faccio dopo mesi di lavoro sulla pagina bianca da cui sono saltati fuori due libri attualmente in cerca di editore. 
Il primo è un romanzo per ragazzi, un misto di favola e fiaba, una suggestione che mi frullava in testa da molto tempo. 
La mia terra è ricca di leggende e di strane creature che la imparentano con la tradizione celtica d’oltralpe. I racconti popolari ne sono pieni e ci sono alcuni luoghi che più di altri trasudano magia e voglia di irrazionale. Il secondo è il racconto della vita degli ultimi animali da compagnia che sono entrati in casa mia e della loro interazione con gli umani che vi abitavano. Questo romanzo di più voci narranti, che si alternano in forma diaristica, è stato la cura per elaborare la perdita di tutto l’amore che ho ricevuto negli anni. Di questi romanzi avremo modo di occuparci dopo che saranno, se mai, pubblicati.
Perché proprio ora? Quale la causa scatenante per la ripresa di un blog che nessuno o quasi legge, almeno secondo il numero dei commenti?
Semplice, Tu l’hai visto Easy Rider? è prossimo alla stampa. Presto dovrei ricevere il risultato dell’editing.
A questo proposito due cose sulla figura dell’editor mi piacerebbe scriverle. L’editor è utile, non indispensabile. A me fa di sicuro comodo, perché anche se io stesso sono stato editor per un breve periodo giovanile, quando si è così presuntuosi da pensare che come scrivi tu non scrive nessuno, sono così distratto che, pur dopo numerose letture, c’è sempre qualcosa da sistemare o da correggere.
Mi stupisco quando qualcuno mi fa notare le mie sviste e so che non mi sarebbero passate inosservate leggendo un testo altrui. Tuttavia sono quanto di più distante da un maestrino dalla penna rossa, che corregge ogni cosa che non sia canonico. Ci sono errori che nei registri giusti vanno bene così e danno colore al grigio della grammatica. Fanno bene gli inglesi a distinguere tra mistakes ed errors. I secondi sono da evitare, fanno raggelare il sangue, mentre i primi sono peccati veniali che pescano nel linguaggio della strada. Purtroppo a leggere quel che afferma il popolo “saputo” dei social, ogni minima deviazione alla norma, una qualche curvatura stilistica tangente all’ortodossia, viene criticata aspramente con il massimo disprezzo. Naturalmente più i consensi si accumulano durante il linciaggio e più l’effetto catartico dei defensor fidei della lingua italiana, sarà appagante.
La lingua italiana, come tutte le lingue, si evolve o comunque si modifica proprio per gli errori d’uso, e non c’è niente che si possa fare, rassegnatevi. Mi pare che anche Tullio De Mauro fosse comprensivo da questo punto di vista.
Vorrebbero quei detrattori scrivere ancora come il Tommaseo di Fede e Bellezza? Lui di lingua italiana se ne intendeva davvero! Però chi lo regge più Fede e Bellezza! Persino il comodino, sul quale lo avete posto per leggerlo prima di addormentarvi, alimentando qualche speranza di un sonno precoce, potrebbe franare sotto  il suo peso!
Chissà se è vero che tutti tipi di violenza hanno radici nelle profonde frustrazioni dei recessi dell’io! Lascio la cosa a chi ne sa più di me, ci manca anche di fare gli psicologi! Anche per questo c’è Facebook.
Prima di perdermi in piacevoli digressioni, per me solo naturalmente ma tanto chi mi legge!, riacchiappo il filo logico del discorso. 
E se il mio editor fosse un giovane purista neolaureato o se fosse uscito da poco da uno di quei corsi nei quali impari un prontuario di dettami rigidi sul ‘così va bene e così no’? Già vedo la descrizione che ho corretto una decina di volte, soppesando le sillabe manco fosse stata poesia, tutta piegata alle regole del bon ton grammaticale. Ora sono al di qua della staccionata e giuro di pentirmi di avere duellato con un autore per un caracollare di troppo o della necessità della paratassi. In realtà duellavo di più per i contenuti che non per la forma, perché da sola la forma è solo un bel vestito della domenica.
Ricordo un romanzo che era una serie di eventi e privo o quasi di descrizioni, di atmosfere. Avevi voglia di dire che ciò che si stava sviluppando in quel capitolo, dove il grande parco era il collante delle vicende, avrebbe trovato giovamento da una maggiore attenzione alle atmosfere in sintonia coi personaggi. Tutto inutile. Gli autori si battono come leoni per un aggettivo, figuriamoci per delle descrizioni. D’altra parte D’Annunzio non lesinava qualificativi, perché dovrebbero loro?
Dunque dovrò perdere tempo a discutere su correzioni che non approvo? Non sono così presuntuoso da non saper vedere quando qualcosa funziona meglio di come l’avevo pensato io! Anzi, non finirò mai abbastanza di ringraziare chi mi ha fatto notare certe cose e mi ha corretto le bozze dove io avrei lasciato perdere, ma resto ancora un po’ perplesso. Intanto un editor deve per forza trovare qualcosa da modificare,  altrimenti viene meno la sua funzione  e il suo stipendio, poi la sua preparazione di base, se non è suffragata da una marea di letture e una sensibilità che va oltre ogni tecnica, è fatta di tassonomie classificatorie degli errori che rischiano di appiattire il linguaggio, di omologarlo ad uno standard prefissato di una qualche accademia. Questo forse può andare bene per il linguaggio giornalistico, ma poi si sente dire in giro che ormai gli articoli sembrano tutti uguali. Per forza se si usano i codici in modo pedissequo e non li si piega alla personalità di un individuo!
Andando avanti così sarà sempre più facile che siano le intelligenze artificiali a scrivere i romanzi. I migliori ghost writers! Lo scrittore dovrà solo stendere un ordito imperfetto e i computer completeranno la trama con una vasta gamma di eventi e descrizioni in un linguaggio ineccepibile. Lo scrittore potrà sempre provare con altre variabili se non sarà soddisfatto, così come facciamo con le foto del cellulare quando scegliamo quale sarà il migliore effetto tra una serie di opzioni.
Bene, avrei finito di scrivere il mio apporto di sciocchezze. Se qualcuno volesse unirsi a me,  senza polemiche però, per favore perché le cose che scriviamo qui non servono a cambiare il mondo, sia il benvenuto!
Poi magari, chissà!

giovedì 18 aprile 2019

Paragrafo. Uso dei paragrafi. Paragrafare.


Dobbiamo partire dalla premessa che andare a capo è uno stacco importante. Il versus è infatti l’accapo e secondo Jean Cohen nella Struttura del linguaggio poetico è ciò che distingue la poesia dalla prosa. Secondo lui la prosa è una linea continua che potrebbe andare avanti all'infinito e che va a capo solo perché la pagina finisce. Quindi quando paragrafiamo facciamo una pausa imprecisata, ma in teoria lunghissima.
In poesia il verso ha la stessa funzione imprecisata. Ungaretti quando leggeva le sue poesie faceva delle pause  tra suoni e sillabe, che poi diventavano davvero lunghe tra un verso e l'altro e spesso, come è noto, i suoi versi consistevano di  singole parole.
Questo vuol dire che bisogna considerare il paragrafo come un'entità finita (all’interno di pause indeterminate), un po’come se fosse una sola riga dalla quale occorra un’interruzione prima di saltare a quella successiva.
Naturalmente la poesia ha esigenze metriche di musicalità che la prosa ha in maniera ridotta tant'è da risultare molto più facilmente traducibile nelle altre lingue.
Sia ben chiaro: io non mi invento nulla. Coloro che citano in continuazione fonti autorevoli lo fanno per due ragioni: o sono spocchiosi e vogliono esibire saccenteria oppure non vogliono sembrar presuntuosi e si servono delle citazioni per mostrare che tutto il sapere viene da qualche parte. Ecco diciamo che mi schiererei volentieri coi secondi con la aggravante di avere la memoria del pesce rosso, ragion per cui evito di fare la ricerca nel dimenticatoio del mio patrimonio di nozioni. Nulla inventa nulla. Tutti rielaboriamo ciò che apprendiamo. Io non faccio neppure quello.
Dunque qual è la regola per confezionare bene un paragrafo? Ormai sulla rete troverete le tante risposte a questo quesito, ma diciamo che una regola rigida non c'è. Un po’ come si fa per l'uso del punto, l'uso dipende da quando intendiamo finito il discorso, che coincide in genere con un'idea o un argomento, con un ambito che si chiude.
Come vedete io ne faccio un gran uso. Una volta li usavo molto meno. Che cosa mi ha fatto cambiare? Diventare un lettore seriale. Siccome leggo molto mi sono reso conto che è meno faticoso leggere con pause frequenti piuttosto che leggere intere paginate di frasi. Qualche volta andare a capo può sembrare eccessivo perché l'argomento tra i due paragrafi è lo stesso, ma sta a chi scrive sentire il contrappunto di informazioni che i messaggi veicolano e usare soggettivamente lo strumento paragrafo.
Nel mio romanzo Tu l'hai visto Easy Rider? ho cercato di andare a capo il più possibile, magari isolando alcuni concetti in un paragrafo di un solo periodo.
Mi sono reso conto sin dall'inizio che ambientare un romanzo nel 68 e dintorni avrebbe creato problemi di pesantezza e oggi sembra che nessuno voglia più leggere fiction impegnativa, a parte la saggistica ovviamente, che però ha la sua nicchia di cultori intellettuali. Anche se ho evitato con cura le pastoie delle ideologie politiche, a costo di rasentare il qualunquismo, alla fine almeno il sapore di un periodo storico vissuto dalle personae da me create dovevo pure mettercelo. I risultati poi sono alla mercé della critica. Come sempre a mia discolpa posso solo dire di averci almeno provato (adesso è l'ora che vada a capo.)
Non so se aver impestato il libro di paragrafi possa aver alleggerito certe parti più impegnative. Mi auguro di sì. Contavo sul fatto che a metà del libro il lettore dovrebbe essere già abbastanza coinvolto nelle storie dei personaggi da desiderare di sapere come sarebbe andata a finire. Per una lettrice è andata esattamente così, ma vincevo facile perché era mia moglie. Attendo sempre tanti feedback così da essere in grado di farmi un'idea più precisa.
Il testo è in lettura presso un editore perché desidero dargli un aspetto cartaceo.
Vedete, per quanto ti sforzi di essere avanti e di preferire l'informatico al cartaceo alla fine, e qui casca l'asino, non ti sembra di aver pubblicato nulla se non è fatto di pagine fruscianti. Sono datato!

venerdì 12 aprile 2019

Quale lingua mettere in bocca ai personaggi?




Questo mio romanzo è stato completamente rieditato da me proprio a causa del linguaggio dei protagonisti. Come mai? Beh, per il solito dilemma lingua reale, lingua mimetica o lingua imprestata!
La prima stesura vedeva i personaggi parlare una lingua vera, giovanile, sgrammaticata e un po’ gergale, mentre i contenuti di ciò che dicevano erano abbastanza elevati per la loro età, almeno per la prima parte del libro. Il fatto è che non mi ero proposto di scrivere secondo i canoni del neorealismo. Una lingua “vera” su quattocento pagine era pesante come il piombo (in realtà nella prima stesura le pagine erano almeno il doppio). Meglio una lingua mimetica allora, ma anche così il contrasto tra lingua sgrammaticata e concetti articolati era evidente e l’“obesità” del testo continuava a rendere pesante la lettura. Alla fine ho deciso per la terza opzione: una lingua presa a prestito dallo standard letterario dell’autore. I personaggi parlano spesso in modo un  po’ educato (nel senso inglese di educated), ma questo è più coerente con ciò che dicono. Non dico che adesso abbiano tutti fatto una dieta weight watchers, ma col senno di  poi a me sembrano molto più accettabili.
D’altra parte forse a molti non è chiara una cosa. I giovani degli anni 60 che avevano appena finito di frequentare la prima parte del ginnasio (la media vecchia) avevano una capacità speculativa e di eloquio oggi inimmaginabile nei ragazzi coetanei. In quegli anni si contestava, ma soprattutto si discuteva e ci si confrontava su tutto alla ricerca di controaltari al sistema. I giovani si incontravano dovunque di persona, non c’erano i cellulari allora, soprattutto per strada. In seguito con la politicizzazione della contestazione i discorsi hanno continuato a crescere in luoghi più istituzionali, ma sempre con un’attenzione ad un linguaggio “alto”. Dopo il 68 il politichese è diventato un esercizio per molti leader-ini che volevano fare carriera (e purtroppo in molti casi ci sono riusciti cambiando pelle all’occorrenza con nonchalance). La lingua da apprendere serviva per essere riconosciuti, accettati. Una lingua come manifesto insomma e proprio il Manifesto ha prodotto i più bei articoli nel sinistrese di quegli anni (alcuni della Faranda li conservo ancora).
Usare una lingua così pretenziosa in un romanzo capite bene che creava dei problemi al limite del suicidio letterario. Le frasi che si sarebbero potute sentire dai personaggi, nella seconda parte del mio romanzo, ve le  riporto in seguito.
I miei anni universitari come quelli di Ric, il protagonista io narrante, sono un brodo primordiale di ricordi, sensazioni, tante emozioni e soprattutto tante parole che vorticavano dentro come uno sciame in fuga dall’arnia. Se tento di fermare qualcosa nella sarabanda delle parole viene fuori un pot-pourri persino divertente come:

“mordere sulla realtà della scuola subordinata al capitale, unificazione delle forme di lotta per la collettivizzazione del salario in un comportamento di massa determinato, dibattito permanente contro l’egemonia culturale e l’invadenza del capitale nel processo di formazione dell’apprendimento scolastico, rivendicazioni corporative e settarismo velleitario dei gruppi, violenza di stato contro la battaglia delle idee, bisogno di realizzare se stessi in un cascame di disumanizzanti rapporti di potere, garantismo ideologico inconseguente e opportunistico, scazzarsi oggettivamente, unanimità del consenso di affermazioni disfattiste, deviazionismo di una democrazia monca e conflittuale di massa, alternativa globale attraverso nodi strutturali di cogestione del potere studentesco, riappropriarsi dello squassato spirito critico contro l’eversione, rifiutare il rigorismo dei ruoli precostituiti, imborghesimento costruttivo conciliare cucito addosso, contestazione globale per mezzo di contorsioni verbali, prendere le distanze dalle scelte di campo strumentali, salario garantito salario agli studenti, togliere spazio e iniziativa alla forza egemone, farsi carico di valori consolidati, volontarismo parolaio, picconare il dispotismo, coinvolgere le masse per colpire le istituzioni borghesi, collocarsi oggettivamente in contro corsi autogestiti dai comitati di base, pressapochismo e riproposizioni di rapporti di potere, rivendicare il rifiuto della subordinazione, aderenza ai particolari circostanziati della vita quotidiana, provocazione culturale inautentica, riduttiva ridefinizione dell’efficientismo della gerarchia, riqualificazione del referendum per misurarsi con un reticolo di misticismi ideologici, fare il gioco di formule ortodosse, convinzione diffusa del rifiuto della delega, esimersi dal dubbio, accessi universitari liberalizzati, nella misura in cui ti amo, interventi di sensibilizzazione nella scuola di massa, cercare la propria identità nel nomadismo e nel napalm, ritagliare il comune sforzo a fronte della lotta di classe, militanza per servire il popolo, no alla delega ai daze-bao, gruppizzazione dello spontaneismo, comunanza di interessi nel centralismo assembleare, ce n’est qu’un debut continuez le combat, consigli autogestiti strumentalizzati, scusa un momentino e il processo di formazione dove lo metti, tralignare sui contenuti, non cagare il cazzo tecnocrate di merda, collaborazionismo a monte e ascarismo a valle, parcheggio condizione dello studente, compartimentazione dell’arbitrio e dell’alienazione, mobilitazione dell’intransigenza, pavé come cinghie di trasmissione della lotta, sradicare ogni coartazione, rifluire nel carrierismo, insubordinazione indotta, cronistoria del coagulo dell’autonomia, consapevolezza dell’autocoscienza articolata, sterilizzazione di massa come autoriduzione.

Insomma fattevene un’idea. Così alla fine i giovani, e poi gli stessi un po’ più cresciuti, si esprimono nel romanzo con una lingua di comodo, neutra, presa in prestito dalla lingua dell’autore. Non pretendo di avere risolto la difficoltà, ma almeno ci ho provato. L’effetto forse a qualcuno potrà sembrare strano, ma non così tanto se ci si immerge nella vicenda accettando il patto narrativo.
L’operazione  mi ricorda un po’ quei pittori che dipingevano dando a tutte le persone ritratte nel quadro un’aria di famiglia come se si assomigliassero tutte. Probabilmente in quel caso l’aderenza al vero era meno importante del messaggio complessivo. Non so se per le mie pagine si possa dire lo stesso. In certe pagine il romanzo sarà anche pesante, ma la vita in fondo è così, un po’ leggera e scorrevole in certi momenti,  dura e faticosa in altri. 




martedì 2 aprile 2019

Scrivere usando uno pseudonimo



Che cosa spinge uno scrittore ad usare uno pseudonimo? Saranno molte le ragioni e intanto dovrei dare conto anch’io della mia scelta che è in parte pudore, un carattere poco incline ad esporsi e soprattutto il senso della split nature letteraria.
Intanto il nome, Giordano. Tecnicamente sarebbe il mio secondo nome. Ogni tanto in famiglia spunta fuori, ma grazie a dio non è stato dato all’anagrafe, perché come sanno tutti quelli che ne hanno più di uno, avere più nomi per le pratiche burocratiche è talvolta una rottura di scatole. Ti porti dietro un nome che non usi, che nessuno conosce, ma che viene fuori con prepotenza, ogni volta che devi firmare un documento, come il corpo morto della barca.
Vezzani invece non mi apparteneva, ma le ragioni del cuore mi hanno indotto a servirmene, per sentirmi in qualche modo più vicino a una persona per me davvero speciale. Questa persona, dell’ambiente letterario, mi ha aiutato a pensare di essere io stesso uno scrittore. Ancora adesso cerco di seguire l’esempio di chi, pur in possesso di una personale concezione ideologica del vivere sociale, non aveva pregiudizi nei confronti di nessuno scrittore che si sforzava di comprendere sempre all’interno della sua stessa espressione artistica. La consapevolezza che lo scrittore anche il più militante, con questo mai esente dalle sue responsabilità, si ponga comunque in un livello “a parte” dove incontrare l’altro sia sempre possibile, era una delle cose che più mi piacevano.
Lo scrittore è uno che deve essere libero, sempre, anche di sbagliare, perché la sua arte sarà utile, a prescindere dall’esegesi.
Nella Storia della Letteratura ci sono molti esempi illustri. Vi risparmio elenchi.
Scrittori si sono nascosti letteralmente dietro nomi che dovevano proteggerli da pericoli reali o soltanto da pregiudizi, come quando chi scrive usa il genere di sesso opposto (George Sand). Altri hanno usato un riparo dalle critiche, non volendo esporsi e magari bruciare l’immagine pubblica di sé insieme a quella del romanziere.
Ci sono poi coloro che, come ho accennato all’inizio, adottano uno o più pseudonimi a seconda di ciò che scrivono, per non portarsi dietro da un genere all’altro le scomode produzioni delle altre personalità letteraria (un po’ come per Joanne Kathleen Rowling/ Robert Galbraith).
Per alcuni forse è stato un vezzo, soprattutto se non coperto dall’anonimato, per altri una reticenza per timidezza al limite del patologico. Come tutti gli alias lo pseudonimo nell’anonimato può suicidarsi in ogni momento e sparire nell’oblio senza pesare sulla biografia dello scrittore. Da questo punto di vista in effetti presenta qualche vantaggio se sei nessuno e non vuoi rischiare di fare brutte figure. L’altra faccia della medaglia è che per non rimetterci la faccia, mi si scusi il bisticcio, si rinuncia a comparire come persona reale, ai contatti fisici, agli “onori”, così importanti per la maggior parte degli esseri umani. In questo caso l’artista tiene tanto alla sua privacy da rinunciare a tutto questo, pur volendo lanciare pensieri che comunichino utilitaristicamente con il resto della sua specie.
Che dire? Cosa c’è di sbagliato in questo? Nulla, visto che gli pseudonimi aumentano anche tra i selezionati allo Strega. Chi vuole trovarsi un nome lo faccia. Si trovi una bella motivazione e lo faccia. Tutto qua.




venerdì 22 marzo 2019

Omologazione stilistica, linguaggio standardizzato. E’ così che gli esordienti devono scrivere?



     Sul Web fioriscono ogni giorno siti di scrittura creativa per aspiranti scrittori, come se non bastassero quelli che si possono frequentare con persone reali, e sembra che tutti siano presi dalla mania di scrivere, mentre di leggere non se ne parla. Falso. Ogni giorno fioriscono gruppi di lettura e sono ancora in parecchi a leggere. Di nuovo c’è magari che con l’avvento di internet i lettori vogliono dire la loro e lo fanno spesso in qualità di recensori o frequentatori di blog, e così scrivono pure.
     Gianni Riotta ci ha ricordato in un tweet recente, probabilmente per lamentarsi della scarsa qualità dei romanzi in circolazione, che si leggono troppi cattivi thriller invece di letteratura più impegnata. Beh, Gianni, non c’è bisogno di ricorrere alla sociologia per capire che il fenomeno è storico. Negli anni 50, con la guerra fredda, negli Stati Uniti e non solo, pullulava la fantascienza per esorcizzare la paura dell’invasione dal pianeta “rosso”.
     Oggi certa “paraletteratura” serve come evasione e intrattenimento per menti disimpegnate oppure risponde ad esigenze precise? La casalinga legge di feroci serial killer per esorcizzare la paura di cosa potrà accaderle in metropolitana o mentre accompagna il figlio a scuola?  Forse cerca solo un po' di sana catarsi per scrollarsi di dosso la prevedibile quotidianità e per affrontare meglio altre paure molto più concrete, come arrivare a fine mese. È pur vero che la signora vive in un mondo dove i comportamenti paranoici sono la regola ma, domandiamoci, quanta parte hanno i media in questa follia quando esasperano i fatti sino alla loro mistificazione? Fate voi, ma tenete presente che i comportamenti sociali di massa (oddio è piuttosto ottimistico associare la parola massa all’universo letterario) non si producono per accidenti casuali.
     Ad ogni modo questa era solo l’elefantiaca premessa all’argomento del post che riguarda la tendenza a standardizzare la scrittura creativa. Ripeto, la cosa che più ricorre nelle recensioni degli esordienti sono le critiche sistematiche ai difetti linguistici e stilistici di chi non segue un  protocollo preciso.
     Permettetemi un inciso. Quando ero ragazzo guai a fotografare sfuocando, contrastando, a usare i toni alti ecc. Poi cresci e ti rendi conto che i grandi fotografi se ne sono sempre fregati bellamente delle regole e fanno quello che vogliono, purché il risultato lasci senza fiato o abbia un senso estetico. Ecco nella letteratura è lo stesso: i grandi se ne fregano delle regole. Ciò non giustifica, né autorizza, tutti gli altri a credersi dei geni solo perché fanno come loro. Si tratta di un sillogismo imperfetto e vale solo se si ha la consapevolezza di aver infranto le regole dopo averle padroneggiate pienamente.
     In rete ho rimediato un post firmato cosmopolitica che riporto di seguito in quanto mi vede totalmente d’accordo. Sono sicuro che io non avrei potuto pensare a niente di meglio. È il commento alla solita lamentazione della mancanza di “professionalità” degli scrittori cosiddetti esordienti:
“Con questi criteri utili ma generici, la maggior parte della grande letteratura che leggiamo e a cui ci ispiriamo sarebbe rimasta nel cassetto, ignorata da lettori e critici. Questi sono i consigli che si darebbero a chi deve scrivere un tema a scuola o un racconto per una scuola di scrittura creativa. Il punto più esilarante sono le interminabili descrizioni degli oggetti. Cosa significa? Mah... basti pensare a un racconto di fantascienza: senza descrizioni che ricreano il mondo funzionale sulla pagina, sarebbe impensabile mandare avanti la narrazione dove sono funzionali anche le parti descrittive. E una fiction che punti sulla creazione di un mondo attraverso uno stile peculiare, non so, tipo le descrizioni in un romanzo come Vita di Pi? O il Castello di Kafka? Altra cosa ridicola: usare pochi aggettivi e pochi avverbi: l’incipit di Absalom, Ablsalom! di Faulkner ha ben cinque aggettivi che connotano il pomeriggio di Settembre con cui si apre la narrazione: bellissimi, esagerati, evocativi. Il mio suggerimento: leggere gli scrittori bravi e riscrivere, riscrivere, riscrivere. La lingua è la base del romanzo. Senza un lavoro serio sulla lingua, meglio darsi alla pubblicità, o al taglio e cucito, attività dignitose di certe opere pubblicate oggi con lavori di editing a tavolino per livellare tutto come in una catena di montaggio. Con buona pace per i dispensatori di consigli. E poi, è mai possibile che i personaggi debbano essere sempre più ignoranti dei lettori? Il bello della lettura (e della scrittura che la sollecita) è proprio il suo carattere di sfida nei confronti del testo.”
     Insomma i grandi si permettono cose che i piccoli non possono fare, perché sarebbero sanzionati. Questo che cosa vuol dire? Che lo scrittore sconosciuto debba scrivere secondo uno stile omologato sino al giorno quando, diventato “importante”,  anche lui potrà finalmente cominciare a trovare la sua diversità, la sua strada, il suo stile? Un’assurdità, perché nel mare magnum dell’indistinto chi potrà emergere sarà sempre chi sarà aiutato dalla fortuna letteraria. 
     Mi vengono in mente il fiore nel deserto e la gemma in fondo al mare che nessuno vedrà mai di cui parla Thomas Grey nell’Elegy.  Per permettere ad alcuni di avere fortuna certa è giusto rischiare di perdere per sempre i messaggi di altri? Non è forse meglio che, come stanno le cose oggi, tutti abbiano democraticamente la possibilità di gettare il proprio contributo, la propria testimonianza,  nel mare magnum e lasciare che le cose vadano come devono andare, perché non si sa mai cosa ci riserva il futuro? 
     Lo so, è un po’ romantica questa visione del destino dei libri, però perché non consentire a chicchessia di pubblicare i proprio pensieri e magari di sognare. Da biasimare sono semmai coloro che sfruttano l’ingenuità, come gli editori a pagamento e tutta una serie di nuovi ribaldi approfittatori che offrono servizi di ogni tipo per alimentare questa sorta di fiera delle vanità. 
    Mi aspetto commenti pour parler e non per far polemiche. Ci aggiorniamo.


venerdì 15 marzo 2019

Genesis. Come questo romanzo è stato pensato.


     La necessità di dire la mia su quegli anni è stata la prima spinta, senza dubbio. Mi pareva che allora in Italia ci fossero troppe mistificazioni del 68, liquidato magari come mito scomodo, oppure una eccessiva focalizzazione sull’aspetto politico che ha prodotto in alcuni Stati gli anni di piombo. Purtroppo la nostra Storia è stata anche quella, ma non solo. Soprattutto il nostro Paese è caratterizzato da un forte provincialismo che ha stemperato in esiti diversi gli stimoli, la voglia di cambiamento di un mondo migliore, che attraversavano allora l’intero pianeta.
     Per chi viveva in periferia tutta questa idea del mondo sottosopra poteva non arrivare neanche lontanamente a sfiorare le coscienze. Arrivavano comunque informazioni, atteggiamenti, mode, alcuni aspetti della contestazione, magari solo superficiali, o solo legati all’apparire. Tuttavia non si può generalizzare e creare tipologie di comodo, perché comunque dovunque poteva esserci qualcuno che attraverso i media drizzava le antenne, recepiva quel senso di inquietudine che lo faceva empatizzare con altri coetanei lontani migliaia di miglia. Per me, che giovanissimo venivo appunto dalla periferia, sbarcare in una grande città al centro degli avvenimenti in quegli anni, è stato come uno schiaffo a tutte le visioni precostituite del vivere sociale che mi ero immaginato nell’adolescenza.
     Dal punto di vista diacronico molte cose sono successe, talmente tante che la percezione a distanza di anni è di una grande confusione. Questo non nel senso di incertezza nelle idee, semmai di eccesso, di rumore informante. In realtà ognuno sapeva benissimo in cosa credere.
     Una seconda spinta mi è venuta da quelli più giovani di me che erano convinti che avessi vissuto, come tutti i giovani sessantottini, chissà quali esperienze, dall’amore libero alle droghe psichedeliche. Nel romanzo ci sono avventure che un ragazzo medio, di estrazione sociale media, avrebbe forse potuto esperire, ma forse anche no. Pur facendo uno sforzo di memoria documentale, mi pare che le vite eccezionali fossero rare allora come lo sono oggi. Alcuni fatti nel romanzo sono ricordi di ricordi e racconti all’ennesimo grado e tutti gli altri frutto della creatività.
     Il romanzo si snoda grosso modo in tre periodi: quello prima dell’esperienza politica, quello universitario dei protagonisti in piena rivolta studentesca e quello della maturità di adulti.
     Ci sono state diverse stesure e non sono affatto sicuro che non si possa ancora metterci mano. La prima era scritta in un doppio registro linguistico. Da una parte mi ero sforzato di far parlare i personaggi con un linguaggio giovanile che li caratterizzasse in modo univoco, dall’altra di sottolineare l'uso comune del politichese e il sinistrese in particolare, che imperversavano in certi ambienti, come quello che, ad esempio, ha prodotto pagine bellissime  sul Manifesto. Purtroppo mi sono reso conto quasi subito che chiunque avrebbe preferito leggere l’elenco telefonico di New York piuttosto che quel malloppo informe e contorto quanto il gruppo del Laocoonte, senza però averne la stessa armoniosa bellezza.
     In un secondo momento il dattiloscritto è stato visto (letto spero) da Fernanda Pivano, la quale molto gentile come al solito mi ha incoraggiato e consigliato di lavorarci ancora su prima di trovarmi una casa editrice. Solo per averlo promesso a lei ho deciso di tirare fuori dal cassetto questo romanzo. Spero di assolvere così ad un compito cui non potevo sottrarmi e ora finalmente di potermi dedicare ad altra scrittura.




domenica 10 marzo 2019

Self-publishing, scrittori fai da te, auto pubblicati, indipendenti et alii




Questo blog per ora è così poco frequentato da permettermi di scrivere un po’ a random. Me la canto e me la suono insomma. Per forza di cose, visto che anch’io ho deciso di fare questa esperienza, mi trovo a frequentare pagine dove viene trattato l’argomento degli scrittori indie. Ultimamente mi è capitata la risposta arrogante di un giornalista, di quelli invitati come opinionisti a scaldare le sedie della RAI, in quelle trasmissioni che almeno a me fanno rimpiangere il denaro sborsato per il canone obbligatorio. Alla domanda della ragazza che chiedeva come potesse un esordiente avere la certezza di essere letto e valutato onestamente, il giornalista rispondeva con la solita spocchia di chi si sente in posizione one-up, dando anche dell’ignorante alla ragazza per aver scritto in una lingua colloquiale, che le case editrici non leggono perché quello che arriva è tutta robaccia.
Insomma il mestiere di scrivere è destrutturato e non prevede percorsi di apprendistato, la fortuna letteraria è la summa delle tre scimmiette, eppure nuovi scrittori vengono pubblicati ogni giorno. Dunque qual è il criterio della fortuna letteraria? Perché solo alcuni ci riescono e i più non vengono neppure presi in considerazione? Di sicuro l’aspetto economico è importante. Le case editrici sono aziende e devono sottostare alle leggi dell’economia aziendale. Va bene, lo capiamo. Passi pure che per questa valida motivazione in tutte le librerie troveremo Fabrizio Corona (Fabrizio chi?) in copertina. Tuttavia ci viene il dubbio che chi detiene il potere della Cultura (perché decidere che cosa i lettori possono leggere e cosa no è potere), mostri i muscoli e non lasci scampo all’alternativa, alla ricerca, alla sperimentazione (riuscite ad immaginarvelo un giovane Chuck Palahniuk che presenti il suo manoscritto in Italia?). In realtà qualcosa riesce a passare dalle maglie del setaccio, ma solo se chi lo fa si avvale di un portfolio togato, possibilmente una cattedra universitaria.
Per motivi di lavoro in passato mi sono avvicinato al mondo letterario quel tanto da conoscere scrittori e lavoratori dell’ambiente editoriale. Da quel che ho visto per diventare scrittore  ci sono solo tre strade. La prima è quella di essere presentato e raccomandato da un potente, la cui fama sia consolidata da tempo. A questa tipologia appartengono ovviamente anche le amanti e gli amanti e ad una sottocategoria gli amici e gli amici degli amici. Alla seconda categoria appartengono i professori universitari. Fate un rapido controllo e vedrete quanti sono. Ricordo di aver fatto parte di una giuria di lettori e di essermi dovuto sorbire un’ora di lezione di narratologia da un assistente (allora) universitario, il quale citava tutti quei testi che ogni studente di Lettere si è già dovuto sorbire, come se fossero perle di saggezza. Questa categoria è potente e si avvale di una rete di alleanze straordinaria. Alla terza appartengono i giornalisti. Per loro è gioco facile scrivere e trovare agganci per pubblicare. Questa potrebbe essere una delle porte di servizio per pubblicare e non ci sarebbe nulla da eccepire, considerato che per fare il giornalista devi conoscere la lingua italiana, avere una buona cultura di base e superare anche un esame. Quello che però a me lascia un po’ perplesso è che lo stile del giornalismo di oggi diventa sempre più standardizzato e la lingua è così tanto filtrata da far sembrare gli articoli dei giornali tutti uguali o scritti dalla stessa persona. Magari in futuro useremo dei giornalisti robot. Naturalmente esagero. Saprei riconoscere Gianni Riotta anche se non firmasse gli articoli. Comunque sia questo modo di scrivere, pulito e standard finisce per essere il paradigma su cui si basa il giudizio della scrittura di tutti gli altri e questo è purtroppo limitante. Così la lingua dello scrittore medio italiano è garbata, corretta come quella della maestrina dalla penna rossa, ma piatta e votata a far da spalla al contenuto.
Fioriscono siti che insegnano a scrivere. Ti suggeriscono di non mettere avverbi in mente, di non usare troppi che ecc. Mio dio ma io ho messo troppe parentesi! Insomma D’Annunzio non sarebbe mai passato e sì che lui ha scelto un’altra strada possibile: lo scandalo. Oggi per vendere libri si pubblicano sempre più colori sexy. I libri porno vanno di moda, ma vaccinati come siamo temo si leggano più per l’intrattenimento che per la curiosità morbosa e libidinosa di sapere di più sull’argomento.
In definitiva gli scrittori indipendenti esistono perché siamo entrati nel mondo digitale dove tutti possono dire tutto, ma anche dove ci si può democraticamente esprimere, dove se pensi di avere qualcosa da raccontare agli altri lo puoi fare, magari a patto di non aspettarti giudizi di valore.
Toc toc. Is anyone at home? Scusate la citazione. Morivo dalla voglia di usarla da qualche parte. Qualcuno ha qualcosa da dire in proposito? Non c’è da essere per forza polemici. E’ sufficiente portare la propria esperienza. Mi spiace di non poter esprimere la mia con nomi e cognomi, ma non mi sembra di aver scritto nulla che già non si sapesse. Vi aspetto.

La Casa delle Madri di Daniele Petruccioli

    Mi sono deciso a scrivere due righe su questo romanzo che mi ha immerso così bene in una realtà non mia e che mi ha tenuto lì sotto sino...