venerdì 8 febbraio 2019

Sinossi






Il titolo si spiega nel culto del protagonista per il film che rappresenta la voglia di libertà in un mondo oppresso dai condizionamenti e dai pregiudizi.
Un gruppo di giovani cresce e diventa adulto tra gli anni sessanta e la fine del secolo scorso.
Il racconto si sviluppa in parte come romanzo di formazione e in parte come romanzo storico, poiché i personaggi si muovono sulla superficie della Storia in modo verisimile.
Riccardo, Ric, è l'io narrante che tesse i rapporti con gli altri personaggi. La sua queste è la voglia di cambiamento e in questa ricerca non è solo. Il pericolo è il rischio di perdersi tra i problemi della vita e il proprio mondo interiore, mentre ciò che resta delle esperienze, anche se non rivoluzionario, può aprire la strada al cambiamento sociale a cominciare dal recupero dell'individuo.



giovedì 7 febbraio 2019

Tu l'hai visto Easy Rider - Estratto - Capitolo quarto


Di solito le anticipazioni di un romanzo permettono di leggere più o meno il primo capitolo. Per quale motivo? Forse per il pregiudizio che letto il primo tutto il resto sarà uguale. Un po' come a dire che tutto l'anno seguirà l'andamento dei primi dodici giorni di Gennaio. 
Scusate se sono un po' bastian contrario, ma io ho simpatia per altre parti del libro e quindi posto questo estratto, che comunque non è per niente l'immagine di tutto il resto.
Mi viene in mente To the lighthouse  di Virginia Woolf. La prima parte del romanzo potrebbe essere anche faticosa e un po' monotona, ma poi, dopo che hai conosciuto bene la protagonista,  ecco  la rivelazione che ti scuote dalle fondamenta e ti fa divorare tutte le pagine che seguono. Almeno per me è stato così.  Naturalmente questo romanzo non si avvicina nemmeno lontanamente alla lista della spesa della grande Virginia. Non aspettatevi troppo!
 Il romanzo sarà presto pubblicato in forma di ebook. Non penso che vedrà il cartaceo a meno che non si creino le condizioni per riconsiderare tale scelta. Dipenderà dall'accoglienza del romanzo, credo. 
Sarò anche rinunciatario, ma dubito che questo possa succedere per un libro auto pubblicato con uno pseudonimo. Ah, già, perché sì, Giordano Vezzani è un alias. Una scelta che ha le sue motivazioni. 
Per chi avrà conosciuto il libro a partire da questo blob ovviamente fornirò  presto  il link dove scaricare l'intero testo. Sarò felice di ricevere commenti e di scambiare opinioni e mi pare che questo sia anche il senso di una scelta che privilegi l'uso del web. 


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Capitolo IV


Venezia mi accoglie a Santa Lucia, togliendomi il fiato come sempre, perché con perfida ironia i miasmi dei canali si amalgamano alle percezioni più stimolanti, e sfiori il sublime ti piaccia o no.
L’ostello è fuori mano, ti pareva, ma la Giudecca, le Zitelle, si rivelano poi un assurdo privilegio per giovani vagabondi, posto com’è tra l’isola di San Giorgio, un tramonto di cartapesta, e Piazza San Marco a due passi di laguna.
Non mi capacito come non lo abbiano messo tra le fabbriche di Porto Marghera questo ostello qui e al suo posto non ci sia un megagalattico hotel cinque stelle. Ma poi è chiaro. Venezia di posti così ne ha da buttare a pacchi e mi sta proprio bene che questo palazzotto, rosso scuro di cotto toscano, con gli smerli gradinati tipo case di Amsterdam, sia tutto nostro.
Comunque a farci sentire a nostro agio c’è l’interno, al solito in caserma-style, con suppellettili scontate e famigliari come il loro classico galera-design. È come se il sistema ti offrisse vitto e alloggio a modico prezzo e nello stesso tempo ti mettesse in guardia dalla vita di merda che stai facendo. Almeno se le camerate maschi-femmine fossero promiscue che bel casino che se ne potrebbe fare.
Incontro Annie. Grandi abbracci e l’unico saluto delle lettere ciceroniane che ricordo, vale pulcherrima Annie. A una media di due etti al giorno la cucina italiana l’ha fatta diventare, come dice lei, una “chicana-californiensis muy gordita” e io le replico “just a little chiattona”, tanto per far pisciare addosso dalle risate il nostro compagno italiano di breakfast, l’unico pasto decente da consumare in ostello.
Le spalline di sangallo della canottiera di lino e trine si adattano così bene alle due potenti braccia da guardia del corpo, quanto una cuffietta di merletti intorno al viso di Spadolini già in età parlamentare. Colpa di Forattini.
È un piacere vedere che la sua carica di vitalità è incrementata di pari passo colla ciccia e che ha adottato una nuova pettinatura sostenuta da una serie di forconi, messi qua e là casualmente tra un insieme pirotecnico di cernecchi slegati e indomabili.
Continua a inforchettare per tutto il tempo che siamo insieme e la immortalo nella posa, di affiché fin de siecle, della donna che si pettina con le braccia sollevate in un’atlantica impresa, mentre in mano tiene una forcina biascicata nel tentativo di parlare. E ancora una volta mi fa macinare calli, callette, fondachi, ponti, fondamenta, in uno zigzagare senza sosta dove tutto è esclamativo, fotografabile, wonderful. La scatenata californiana morde il freno solo quando sente il morso della fame e allora è capace di fiutare dove si mangia più cheap, con quattro soldi, in tutta la laguna.
Ho ricordato una rosticceria tipo snack bar, con panchette sopraelevate per cosce da cestisti e una stretta losanga di legno lungo il muro dove puoi appoggiare il piatto, in castigo. Durante una mia precedente visita avevo intuito che per dei turisti morti di fame non doveva essere male e così avevo preso a riferimento il Rialto, la statua di Goldoni e un paio di negozietti di indianerie, cineserie veneziane. Annie pretende che la aiuti a scegliere, così le spiego ogni piatto, neanche fossi uno chef internazionale e poi come si dice marinato in inglese?
La minaccio di morte violenta se non mi segue subito in piazza San Marco e se non si stravacca da qualche parte innocua e mansueta. Ma anche qui poi, è sì abbastanza innocua, perché non osa farmi spostare le chiappe da un bel pezzo di marmo pario, ma non più mansueta di una manzetta assediata dai tafani.
Ora sono i piccioni, perché non si può tornare in America senza averli ingozzati - alla faccia dei monumenti che quelli scacazzano ogni giorno - ora sono le cartoline tonde multivision che come qua non ce ne sono da nessuna parte, ora il bisogno altruistico e petulante di correre in soccorso di visi yankee apparentemente in difficoltà e indecisi da dove cominciare, ora a pianificare il migliore sightseen di Venezia in sole dieci ore per due giapponesi occhialuti, sorridenti e deferenti. Le dico che ora capisco perché il grande cinema è nato a Hollywood, lì c’era tanta materia prima ed è meglio stare a guardare lei che i fratelli Max. “O.K. me lo sono voluto un bel dito all’insù, andrò a fan culo, va bene, ma siediti per favore!”
All’interno dell’ostello non sono gradite le discussioni di nessun tipo, specie se politiche. Dobbiamo essere l’immagine della gioventù bella, sana, atletica, usare il dentifricio tre volte al giorno sulle note di Barbara Ann e lasciare il cervello all’entrata: il guardacervelli ve lo restituirà alla partenza, ma attenzione a conservare lo scontrino. I discorsi hanno perciò il loro teatro naturale davanti al fondale di San Marco con i piedi ciondoloni sull’acqua brulicante di gamberetti in piena mutazione genetica. Per chi non sopporta gli effluvi salmastro-fecali c’è il muro e il selciato.
Ad Annie sembra stupido sprecare una serata veneziana alle Zitelle, ma le dico che l’isola si chiama così perché ci vivevano due sorelle che sono rimaste zitelle, spinsters, perché avevano la pretesa di portare i loro lovers tutto il giorno in giro per Venezia e che come fa lei a essere Wertmuller, Jane e Cita tutto in una persona. Mi dà uno spintone cameratesco, uso semper fidelis, arruolati in marina e girerai il mondo, che mi fa piombare tra le ginocchia di alcune zazzere nostrane, così dico: “Scusate la mia ragazza è una campionessa californiana di catch e io sono il suo allenatore”, ma il commento più carino è “fatti fottere”. Incrocio le gambe e faccio un segno a Annie e siccome siamo in pieno spreco di neuroni le traduco come posso quello che dicono.
La zazzera tipo beatlemania, acciambellato alla mia sinistra, ha un tic nervoso agli occhi e ogni volta che gli viene dice un “cazzo” o viceversa, sbarrando lo sguardo azzurro pervinca nella luce portuale delle lampade al sodio.
“I nostri genitori, gli adulti, quelli che contano, i potenti, cazzo, non hanno fiducia in noi o più probabilmente hanno paura della nostra forza. Per ora è ancora potenziale, ma presto le nostre idee saranno le idee di tutti i giovani e quando i giovani saranno cresciuti, cazzo, voglio vedere se le cose non cambieranno, cazzo, per questo è importante diffondere le idee e diventare ogni giorno sempre più numerosi, cazzo. Sono sei mesi che vado in giro e sono stato anche all’estero e le cose stanno davvero cambiando dappertutto. È che devono cambiare, ché è giusto così, ché la generazione di prima ci stava portando verso la terza guerra mondiale, al disastro atomico, ma che i giovani di tutto il mondo hanno capito, cazzo, e non lo lasceranno fare!”
“Ma fammi capire,” interviene un tipo scamosciato chiaro a frange da pellirosse, “fino adesso avete fatto tabula rasa di tutto. Ma non si può fare così. Mio padre ha fatto la Resistenza, era partigiano, ora è comunista. Io lo ammiro per quello in cui ha creduto, giustifico quello che ha fatto. Non c’era alternativa. Cosa avremmo fatto noi a quei tempi, i sit-in pacifisti davanti a palazzo Venezia? La Resistenza contro gli errori di allora è stata covata per anni e poi si è attivata in guerra. E’ giusto così! Sono passati dal rifiuto delle idee imposte dal regime, alle armi perché non c’era altro da fare, la non violenza coi tedeschi in casa sarebbe stata solo auto annientamento, magari su un piatto d’argento.”
“Va beh, comunque tuo padre ha il torto di essersi fermato alla liberazione e crede che un sistema repressivo come quello russo può risolvere tutto, può portare al cambiamento e può fare sparire qualche ingiustizia. Ma vale la pena un’alternativa così?”
“Intanto si comporta come tutti, paga le rate della seicentocinquanta e risparmia per la casa dei suoi sogni per sé e la famiglia. In testa c’ha pure la fabbrichetta e quando ci arriverà sarà vecchio e morirà di cancro per la merda che ha respirato, oppure esproprieranno il suo terreno per metterci le nuove fabbrichette.”
 “Ha ha! E poi se andrà bene le industrie le faranno un po’ più in là e scaricheranno le loro merde su di noi che vivremo tappati in casa con le maschere antigas e fuori sarà tutto morto, grigio come il paesaggio di Hiroshima e le nostre galline sembreranno extraterrestri sopravvissuti a un campo di sterminio intergalattico.”
“Sai cosa ti dico,” intervengo a rinforzo dell’esploratore del basso Po, “che quelli come tuo padre sono entrati nella storia perché l’hanno fatta, che hanno agito ed è così che dobbiamo fare noi, agire, non basta dire quello che non ci va, quello che ci rifiutiamo di fare, basta di definirci solo in negativo, bisogna anche entrare nel sistema per scardinarlo.”
“Non spalare merda! Tu ragioni come quelli che dopo essere stati tanto dentro al sistema, cominciano anche a starci bene, veh!”
“Un momento dai, perché no? Perché non dovremmo fondare un nostro partito, andare a fare casino in parlamento, alla televisione, fondare giornali a larga tiratura? Perché i nostri ciclostilati rischiano di rimanere bollettini d’informazione parrocchiale, sia ben chiaro! Perché non dovremmo desiderare il potere per poi fare i cazzi nostri? Se pensi che il pericolo è che poi una volta che ci sei dentro ci sei dentro, allora vuol dire che sono le persone che hanno fatto il movimento ad essere delle teste di cazzo e non il movimento per se stesso. A non fare niente si lascia campo libero agli altri e allora saranno i loro figli a fare la storia di domani e non noi.”
Annie vuole capirci qualcosa e preme per un resoconto e, mentre epitomo tutto, sento che il mio intervento è stato apprezzato con dei “chi cazzo l’ha chiamato questo qui” e così non ci rimane che fare una superveloce puntata a San Marco, tanto la corsa è praticamente regalata, a slurpare un torreggiante semifreddo. Con i gomiti sulla scia di spuma maleodorante respiro la sinestetica luce lunare, guardo benevolo Annie e le dico in italiano: “Anche oggi i tuoi due etti non te li leva nessuno!”

L’ora del rientro si avvicina, lo sento istintivamente, d’altra parte “sei un animale” è il complimento consueto di Manu alla mia persona. C’è anche da dire che in fatto di scadenze sono più inquadrato di una scatola da scarpe e voglio cominciare a pensare all’università.
 Ho riallacciato i contatti via cavo col mondo e mi sono ammosciato quando è arrivato l’espresso completo di Manu che mi ha dato una svirgola che levati e inspiegabilmente mi ha fatto sentire che il mio posto è altrove.
Forse comincio a percepire il disagio. L’avventura rischia di diventare una vacanza, l’esperienza il godimento del vivere alla giornata. L’edonistico tirare a campà mi disgusta. La centrale operativa, il mio posto organizzativo di comando è a casa. Là posso riprendere la gratifica di tessitore dei fatti altrui e implicarvi i miei. Il mio tempo bergsoniano si è modificato a causa delle emozioni e degli impulsi serrati che ho ricevuto lungo il viaggio. E’ come se lo stoccaggio dei pensieri, la mia coscienza, viaggiasse a una velocità einsteniana tanto grande che il peso delle preoccupazioni si è annullato, lasciandomi sospeso in una realtà in vitro, tanto affascinante quanto sperimentale, dove può accadere di tutto. E’ stato invece necessario uno scossone perché, pur sapendo che là tutto si stava svolgendo con la solita staticità paralizzante, ho temuto di ritornare in una realtà che mi rifiuti, perché andata troppo in fretta senza di me, messo da parte, dimenticato. Con la testa, almeno, sto rincasando.
La lettera di Manuel presso l’ostello di Venezia è stata già recapitata da una settimana. E’scritta su fogli di blocco notes con la spirale di metallo plasticato e non si è neppure dato pena di strappare via le frange di carta che si ammassano da un lato, conferendo volume alla busta. Non ricordo di avere mai ricevuto posta da lui, se non forse delle banalissime cartoline, e sono quindi frastornato da quell’involto di carta tanto copioso quanto, al contrario, Manu era famoso per consegnare in classe saggi striminziti e inadeguati.
“Ciao lendinoso, ti scrivo perché te l’ho promesso, ma sono sicuro che tu non la leggerai mai la mia lettera, perché non riesco a vederti a Venezia tutto solo. Secondo me non appena ci siamo separati te hai preso il treno e te ne sei tornato dalla tua mamma e, se ci sei arrivato, come hai fatto senza di me? Ce lo vedi Dante senza Virgilio o Don Chisciotte senza Sancho Panza? Oddio che idea cretina, mi sono dato una zappata sui coglioni da solo. Essermi paragonato a Sancho Panza! Ma ormai l’ho scritto, amen.[…]”
La lettera continua in un tono faceto e burlesco e lo stile ne attribuisce sicuramente la paternità a quel figlio di puttana. Scorrendo, però, mi accorgo che il carnevale prepara la quaresima e che il calice è amaro, perché la fine di un grande legame è un po’ la fine di un grande amore.
“Non so come dirtelo,” scrive entrando bruscamente nel merito, “ma devo farlo perché se non lo dico a te, non so proprio a chi dirlo. Ricordi che a Perugia ogni tanto telefonavo? Non telefonavo a casa come pensavi, telefonavo a Leo. Fatti venire in mente quando sei andato a comprare i panini alla stazione e noi siamo rimasti soli. È successo che Leo mi ha convinto a rimanere a Roma e che un suo amico mi ospitava. Ma ormai ero in ballo con te e dovevo ballare. Solo che poi ho capito che dovevo tornare indietro. Certe cose vanno così! Questo è il delitto, ma il movente qual è? Mi sembra di sentirti. Un movente semplice per chi c’è dentro fino al collo come me, ma potrebbe essere difficile, spero non impossibile da capire, per chi ne è fuori. Leo ha detto subito che gli piacevo e che avrebbe voluto fare l’amore con me. Mi spiace che tu lo sappia così, per lettera, ma io sono così, anche se forse a te sembrerà una doccia fredda. Il tuo migliore amico un finocchio! Rassegnati, è così. Finalmente posso liberarmi di una cappa di piombo. Figurati per uno che si aspetta una cosa così da una vita! Il fatto è che anche a me lui è piaciuto subito un casino e anche se non l’avevo mai fatto ci volevo stare. La cosa ancora peggiore è che poi mi è anche piaciuto e ho capito che non potevo prendermi in giro e raccontare balle agli altri. Se ogni simile cerca il suo simile Leo e io eravamo della stessa razza. Ora aspettiamo. Lui finisce il militare e intanto sto con alcuni suoi amici. Ti mando l’indirizzo e il telefono. Fatti vivo per favore. Abbiamo dei progetti, ma ho un sacco di paura per via dei miei e conto nel tuo aiuto per trovare una buona scusa per andarmene da casa.”
La lettera si spenge con il ricorso al solito tono simpatico e mattacchione, un paio di notabene e un post scriptum senza senso. Sono rimasto come un imbecille a ragionare su quel “fatti vivo per favore”. Quando mai Manu mi ha detto per favore? Farà parte del suo patrimonio di lingua scritta, registro confidenzial-epistolare, oppure dietro quattro parole c’è una bottiglia di vetro lanciata in sordina al migliore amico con dentro scritto “non ci capisco più un tubo, sono troppo incasinato, la mia è una richiesta di aiuto”?
Questo succede quando tutti ti investono della parte del fratello maggiore solido e incrollabile. Decido di fare una corsa a Roma per riprendere contatto, attraverso Manu, col percorso principale della mia vita, scartando per ora quelli alternativi.
Saluto Annie in mistilingue tra baci e abbracci camerateschi, scambi d’indirizzi, promesse, assicurazioni sul nostro patto di amicizia, o qui o là, ci si scrive e prima o poi, stai tranquilla che la west coast me la sogno anche di notte e attacco, con pessima imitazione di Mama Cass, che mi piace un frego, Dedicated to one I love. Sventolo dal finestrino il cap da marinaio USA che Annie mi ha regalato per forza in un ultimo impeto di generosità. Il berretto è un pezzo autentico con il bordo di cotone impunturato spesso mezzo centimetro e alto un palmo, mi si ferma sulle orecchie e tirato giù mi fa l’aria da scemo integrale. Dentro ci doveva stare il cervello svaporato di un mister muscle tutt’acciaio e la sommità ispida del suo calvario. Mi commuovo così tanto che le darei tutto, anche le mutande. Le metto in mano il distintivo degli sparvieri che è rimasto spillato su una tasca dello zaino da tempo immemorabile. Sventolo e ringrazio perché si fa un regalo così solo a un vero amico. Non si butta via un po’ di sé così, per niente. Mi pento di non averle dato il braccialetto di Maria quando sono già a Mestre.
A Milano dovrò aspettare qualche ora per prendere il rapido. Ma Milano era nei programmi, così almeno potrò dire di esserci stato. Cambio due volte scompartimento perché a me la gente che non parla mi sta sul cazzo. La terza volta mi va bene perché trovo un ragazzetto che per loquacità è più pirla di me ed è dei nostri, si vede anche troppo chiaramente dai jeans macerati e dal maglione di cotone crudo tagliato a barchetta, senza nient’altro addosso che un paio di flip-flop di gomma multistrato colorato con la vu infradito blu elettrico. La lunghezza dei capelli lascia adito a due sole ipotesi: primo, è entrato nelle fila del movimento vattelappesca da poco oppure, secondo, è un coscritto con un forte spirito di individualità e di autodeterminazione tipo i capelli li porto come caspita mi pare. Intavolo una lunga chiacchierata su argomenti vari.
“Hai visto Easy Rider?”
Anche a lui Easy Rider è sembrato un capolavoro e ricorda anche alcuni pezzi del soundtrack e improvvisa, colla mimica della chitarra, un Jimmy Hendrix show. Mi dice che quella scena psichedelica quando si drogano è proprio forte, che è come se riescano a comunicare tra di loro in modo nuovo e che si vede che sono uniti dalla stessa emozione, ma che a lui una roba così non è mai capitata. No comment dalla mia parte.
Metti due come noi insieme ed è un’orgia di bla-bla su violenza, guerra nucleare, ipocrisia dei benpensanti borghesi, società repressiva, ingiustizie della democrazia cristiana, pacifismo, civiltà dei consumi, aspetti superficiali della provocazione antiborghese, morale individuale come principio fondamentale di ogni consorzio umano, spersonalizzazione a causa dell’automazione e meccanizzazione, possesso del falso benessere tramite il possesso di oggetti, con la conseguenza di una vita ansiosa e di innaturali ritmi accelerati di vita, barriere che dividono sempre più coloro che credono nello status symbol e coloro che cercano la genuinità…
Il grande capannone-hangar della capitale dell’industria ci inghiotte nella falsa luce anodina. Se vado con lui per un po’ posso stare con degli amici in una baraonda di casa. Gli spiego che non posso, ma che ho del tempo da perdere e che farei volentieri un giro e che vedrei volentieri che fine ha fatto la tendopoli. Mi ci porta eccome se voglio, ma che da quando Barbonia City, come la chiamano, è stata distrutta può essere anche rischioso per quelli come noi andare da quelle parti.
“Come minimo ti fermano se vedono che c’hai i connotati da schedato e, a parte i capelli, ce l’hai presente se vedono lo zaino e i sacchi a pelo?”
 “Ma dov’è finita tutta la tolleranza dei milanesi,” faccio io, “avete accolto a braccia aperte tutto il meridione, che qui il problema dell’integrazione quasi non si è posto e poi per quattro ragazzi, che vogliono vivere come gli pare si mobilita tutta la città.”
“Eh già, ma i terroni caro servono come carne da macello alle industrie e fanno troppo comodo, mentre quelli che non lavorano qui, nel tempio del dio lavoraeproduci, sono una minaccia perché  possono anche corrompere tutti gli altri e allora dove sarebbero più quelli da sfruttare! L’hai capita la musica?”
“Fanno vedere di essere accoglienti, ma in realtà hanno il loro tornaconto. L’umanità è malata di ipocrisia. Nessuno fa niente senza tornaconto.”
Ci siamo. Qualche sguardo da “se ti muovi ti fulmino”, ma niente di più. Non c’è neppure gente da quelle parti e dire che ho letto che era un formicaio. Vedo un’area recintata, grande e polverosa. Dove era il prato? Forse qua e là sono rimasti dei reperti, ma poca roba e complessivamente l’impressione è di una delle tante aree in attesa di essere edificate. Saluto l’amico e rimango deluso di essere arrivato tardi, ma tanto i miei programmi erano altri.

Ho i reni a pezzi e piscio cinabro perché il treno non lo sopporto, penso agli areostati, ai dirigibili come a una grande occasione mancata per l’ Umanità, che non mi farebbero pisciare sangue e pestato gli occhi a quel modo.

“Te lo passo subito ciccino,” mi risponde la voce frocio-romanesca. Al balbettio dell’incipit segue la fiumana di parole intercalate da “che bestia sei, sei bestiale lo sapevo.” Manu mi dà le indicazioni poi si corregge che preferisce venire lui a prendermi e poi ancora mi dice come fare ad andare in un certo posto a metà strada che è la cosa migliore.
Mi sento strano a trovarmi di nuovo qui, sono ritornato sui miei passi lungo un’ellissi. Temo, per una esasperante condanna, un perfido destino da ebreo errante, di ritrovarmi di lì a poco a Spoleto per ricominciare tutto daccapo. La mia capacità nevrotica di creare situazioni immaginarie hanno forse un effetto catartico, preparatorio sulla realtà, come certi esercizi di respirazione yoga.
Manu mi viene incontro festante con la consueta cera da lasciami-perdere provocatoria, ma non mi sfugge un certo disagio impacciato, l’aria colpevole di quello che sa già di passarla liscia. Prende la rincorsa e con una sforbiciata mi attanaglia i fianchi e mi abbraccia con tutta l’irruenza della quale è capace. Subisco l’attacco a sorpresa senza poter contraccambiare, dal momento che è stata già un’impresa l’essere rimasto in piedi, invece di riversarmi sull’asfalto dell’urbe, cavalcato supino da quella specie di umano cucciolone.
A dire il vero mi preoccupo degli occhi che d’intorno ci fissano per tutta la durata della performance, attirati dai frizzi e lazzi dello scatenato Manuel. Se non fossimo in pieno centro saprei io come fare a farti star buono, gli ricordo, sganasciando la mano minacciosa nell’aria. Mi costa una poderosa manata sulla spalla che mi scombussola lo zaino e l’equilibrio, fino a che trovo l’attimo per dirgli “Eccomi qua.”
Lo seguo in un appartamento con molte porte interne che si affacciano su un corridoio lungo a esse e mi sorprendo dell’altezza d’altri tempi dei soffitti. Le stanze sono ricavate da un enorme salone perché le diagonali del soffitto a crociera sono rintracciabili, assieme al grado di curvatura, nella successione delle pareti. Avverto dal silenzio pesante che non c’è nessuno in casa e Manu me lo conferma e mi fa entrare in una stanza incasinata.
“Aspetta non me lo dire,” gli faccio, “che provo a indovinare. E’ dove dormi tu!” e gli mostro una baraonda di indumenti impilati sullo schienale di una sedia. “Ecco il tuo guardaroba!”
 Fa sparire frettolosamente la roba sporca dal pavimento, ma gli sfugge il paio di mutande che raccolgo con il mignolo e che gli porgo.
“Sono le tue non ho dubbi, riconosco la tonalità del tuo marchese.” Sull’ultima vocale mi dà una manata tra le costole e me le strappa di mano prendendosela con la bestia immonda che non sono altro.
Ho voglia di sapere e non lo nascondo. Ci sediamo dove capita. Mi aspetto delle spiegazioni, lo incalzo e poi lascio che il silenzio faccia il resto, perché lo sproni a riempire ogni iato imbarazzante di tempo. Manu finisce per farmi il resoconto di una love-story da lettera al direttore di qualche rivista al femminile, con tanto di colpo di fulmine e l’angoscia di quanto potrà durare. Lo tempesto di domande su come ha intenzione di mantenersi, come mi dovrò comportare al ritorno, su quali sono quei famosi piani per il domani, se fanno l’amore. Voglio sapere ogni cosa a costo di fare la parte del maniaco.
Per ora questi amici non pretendono niente fino a che non troverà un lavoro e poi si arrangerà. È già mezzo in parola con uno di una pizzeria. Quello di portare i piatti è una cosa che san fare tutti. In quanto ai suoi è sufficiente confermare quello che già sanno, cioè ho da dir loro che lui non tornerà e che intende frequentare l’università. Si iscriverà a medicina e, per me, è una vera sorpresa.
“Intanto finché non ti laurei io con te non ci gioco ai dottori!” gli dico.
Lui e Leo hanno deciso di andare a vivere insieme e per un colpo di culo incredibile, Manu ha perso la testa proprio per uno che abita dietro l’angolo della facoltà di medicina. È naturale che per frequentare debba risiedere sul posto. Così tutto si sistema con i suoi. La cosa mi fa giubilare e fa rientrare in parte le paure di perdere l’amico perché anch’io, gli dico, cercherò una sistemazione alla casa dello studente o da qualche altra parte e mi iscriverò a filosofia, altro che scienze naturali, come pensa lui.
Questa sua impennata amorosa non mi ha sconvolto come credeva.
“Con la massima estensione dei tuoi tre centimetri di pene ci puoi fare quello che vuoi, anche andarlo a inforchettare in tutti gli scoli di Roma.” lo rassicuro ed esplodo in una risata irrefrenabile non appena lo vedo venire verso di me per picchiarmi. Gli do la soddisfazione di prenderle per punizione.
“Va be, scusa, ho una lingua di fogna. Sono geloso. Temevo di perdere la tua amicizia ora che ti sei maritato.”
 “Ci sono cose su cui si può scherzare e altre no, in questo settore devi farti le ossa.” Mi punta l’indice semiserio. O cambio io o si abitua lui. Sarà lui a farci l’abitudine.
Gli domando lo stesso se la sua relazione con Leo potrà ostacolare in qualche modo la nostra amicizia.
“Ma non eravate amici tu e Leo?” mi domanda, “e poi perché non potresti addirittura venire a stare con noi, dai!”
 “Eh no Manu, questo non sarà! Tra moglie e marito…!” Un sorriso gli frana agli angoli della maschera compunta.
Non è facile cavargli di bocca tutto il tormento di decisioni prese in tempi rapidissimi in mezzo a una tempesta di sentimenti ed emozioni, ma tra noi non ce ne è bisogno. Se siamo vicini ci colleghiamo subito.
Gli amici di Leo sono travestiti. Uno è praticamente una donna. Per campare battono il
marciapiede. Certo che da qualche parte devono portarli i clienti, ma solo di notte e siccome io di
notte dormo, non mi accorgo di niente.
  “Ehi di un po’, non è che alla fine ti ritrovo con il rossetto sbaffato sino al mento e il
buco del culo che fa le uova d’oro per qualche stronzo?” dico in falsetto incazzato. Manu si tiene la
fronte in mano.
 “Che ti viene in mente, ma mi vedi come la sedotta e abbandonata?”
 “Beh, nel ventre di Roma una mammoletta come te potrebbe cadere anche più in basso,”  gli rispondo prontamente, “ad ogni modo perché non mi dici se Leo t’incula e la fai finita?”
“Ric, stammi bene a sentire, io sono fuori sul serio e qualunque cosa Leo mi chiedesse di
fare la farei perché sono sicuro che mi piacerebbe, hai capito?”
“Insomma io mi aspetto un po’ di pecoreccio del tipo sono stato a camminare tre giorni a
 gambe larghe dal male come una vergine cinquantenne deflorata da un marocchino superdotato, e
Leo è tanto superdotato, e tu invece fai proprio sul serio in modo decisamente preoccupante. E va bene come vuoi tu!”
Gli racconto di Leo e delle nostre porcheriole di adolescenti. Mi sganascio con una sensibilità da cavatore di Carrara, ma quasi subito Manu riprende il discorso.
“Guarda che Leo è meraviglioso, mi fa star male a volte, tanto si preoccupa che io abbia sempre la mia parte. Tu non puoi capire.”
Sollecito e faccio domande e almeno capisco che il loro cocktail d’amore è fatto di sodoma e gomorra, le solite cose, forse di molta fantasia e di tanto altro che verifico negli occhi di Manu, nelle contrazioni nervose delle sue mani giunte.
Manu continua a parlare e parlare sciogliendosi sempre più. Mi racconta sorridendo che, una sera che lo accompagnava in caserma, ne avevano così voglia che si sono infilati in un portone e l’hanno fatto semisdraiati su una moto, venendo tutti e due a tempo di record dalla paura di essere scoperti e poi sono andati a mangiare una pizza. Una delle fisse di Leo era farlo stando all’inpiedi, di preferenza negli angoli bui del lungotevere o nei gabinetti del Vaticano, perché è più maudit farlo in paradiso e più sordido e sregolato.
“Godiamo e pecchiamo, godiamo e preghiamo!”
Dopo essere andato ad aprire Manu mi ha chiamato per farmi conoscere ‘le ragazze’. Ho girato di novanta gradi l’angolo della porta e mi sono aspettato un impasto tra Le notti di Cabiria, Bionda atomica, I vitelloni, Mondo cane di notte, La dolce vita, Ragazzi di vita. Invece le tre Coccinelle sono due donne abbastanza attendibili, più una terza venuta proprio male, disgraziata, magari chissà, proprio quella che il ciondolo l’aveva lasciato in formalina a Casablanca. Mi presento e mi sento dire: “Sei quel ciccino che ha telefonato, vero?” Seguono complimenti e vezzeggiativi, uso “che bell’amichetto che hai Manu, se vuoi te lo faccio per niente” e l’orrore in maschera, passandomi davanti per ultimo, si sente in dovere di dire la sua. “Io a quelli carini come te glielo succhio come un vampiro”
“Brava, così mi tiri via tutto lo scolo!” le sussurro a denti stretti, perché te l’ultima parola con me te la sogni.
Ma poi facciamo amicizia, le tre teste cotonate e io, e scopro che sono divertenti da matti, perché si punzecchiano e si danno battutacce l’uno con l’altro e auto ironizzano per la gioia di tutti i culattoni del globo, specialmente la racchiona, mandibola formato neanderthal-man, da sing-sing con amore. Il ghiaccio tra noi si rompe quando li investo con la cosa più scema che mi frulla per la testa da un quarto d’ora.
“La sapete la differenza che c’è tra voi e le regine?”
“No ciccino diccelo!”
“Che loro sono teste coronate con i marchesi e voi teste cotonate senza il marchese!” Non so perché a me le cazzate vengono d’acchito, così!
Quello più fine e pallido etereo ha l’accento marcatamente toscano e questo rende le sue battute irresistibili. Mi scappa da dire a Manu, “ma chi l’ha cagato quel fenomeno lì” e lui che ha intercettato mi risponde senza alterare il tono di voce da finocchio cantilenante: “La budella di tu mà!” Poi con striduli urletti sospesi alle vocali accentate fa un po’ di teatro vernacolare in proprio.
“Sai che ti fa un giardiniere a mezzogiorno? Un albero ‘n culo e le foglie d’intorno!”  Sgrana gli occhi a pochi centimetri dal mio viso che lo guardo divertito e prevedo la boutade.
 “Te un te la immagini qui Clementina. C’ha le palle mosce che le sciondolano tra le gambe come al bacco del Bargello. Te tu ti domanderai e come fai a sapello? deh, un l’hai visto che c’ha il culo maolato!”
Fanno salotto-cabaret per pochi intimi e si raccontano momenti della loro professione con la stessa ocaggine delle pubblicità televisive che parlano della spesa e del bucato.
“Guarda quello lì se ritorna si prende un calcio alle palle, viene da me che gli puzza l’alito di vino che non ci si resiste e tutte le volte gli dico “la prossima volta prima scopa e poi bevi.”
“Sì quello! Stai fresca, è pieno di candida e pretende che gli faccio un pompino prima di metterlo in culo. Sai che gli ho detto? A quel prezzo fatti una sega da te e già che ci sei fanne una anche a me!”
Quando cominciano a sciorinare a gara tutti i casi degni di nota per anormalità, rarità e malattie, faccio segno con la testa a Manu di trovare il modo di portarmi fuori di lì, dopotutto certe patologie è bene che interessino a lui futuro medico, ma a me ormai che me ne frega!»
Andiamo per pizza al taglio, ma rientriamo prestissimo perché sono al collasso e non riesco a guardarmi allo specchio. Manu comunque ha una premura quasi materna e ci manca solo che mi rimbocchi le lenzuola col bacio della buonanotte. Dormo a piombo un paio d’ore poi sussulto col batticuore per i rumori improvvisi nel corridoio e risate ed esclamazioni pretenziose. Mi appisolo quando i rumori si fanno di nuovo crescenti e fastidiosi, un vero supplizio di Tantalo, paragonabile solo a una notte in piedi nel corridoio del Zurigo-Milano, con le ginocchia che danno l’allarme non appena ti addormenti sino al prossimo colpo di sonno.
Al mattino la prima cosa che dico a Manuel è che le sue Peter Sisters, le tre grazie dal culetto d’oro, producono più loro che le catene di montaggio di Mirafiori e che sicuramente a un ritmo così il loro capitale si decuplicherà in pochi mesi, sempre che trovino primo: il modo di rifarsi la plastica allo sfintere ogni sei giorni per usura e secondo: conveniente il costo di ammortamento.
Prego Manu di portarmi in giro per la città senza una meta precisa, così a caso, per sbirciare un po’ di colore locale. Roma mi piace proprio. Mi dà l’impressione di una capitale provinciale e cosmopolita al medesimo tempo, ingorgata da traffico rumoroso, garrulo, neolatino. La città che conoscevo era poca cosa e si sovrapponeva alla Roma fittizia dei ricordi scolastici, delle suggestioni letterarie, culturali in genere. In fondo rimaneva ancora qualcosa della città visitata da Goethe, qualche scorcio verso l’Appia Antica, qualche capriccio, qualche rudere conservato tra il verde qua e là, ma senza dubbio c’era ancora intatta la capitale post risorgimentale, fissata dai cerulei occhi dello Sperelli. Inutile tentare di ignorare le linee neoclassiche da nosocomio, con tendenza al dormitorio pubblico, di tanti edifici del ventennio, ormai incancellabili. Pensare che ormai ce li dobbiamo tenere per sempre è come un jingle nella testa. Intanto ripasso Moravia inquadrando i Parioli.
Mi faccio promettere da Manu che se fossi ritornato presto mi avrebbe accompagnato al cimitero degli inglesi per recitare in situ le ceneri di Gramsci, come un voto da portare a compimento per chiudere il capitolo liceale, ma forse anche il pellegrinaggio iniziatico per trovare la giusta collocazione nel mondo degli adulti.
Promesse, conferme, iterate tautologie, verrò stai tranquillo perché tanto devo venire, suggerimenti e rimproveri, e sette ore di strazio proprio nello scompartimento sulle ruote a farmi scorticare quella parte dei reni rimasta ancora al suo posto. Ci vediamo Manu.

La maremma laziale, i profili dei colli dei Rasenna, dove avrei voluto vivere in qualche assurda vita precedente.

Avrei speziato il vino in crateri di bucchero, deliziato gli amici con scherzi conviviali, avrei danzato atletiche figurazioni in nuda leggerezza, drappeggiato di foglie di mirto tra i capelli e lasciando in mostra il mio sesso ciondolante come un pigro ornamento. Affondo il mento nel petto e lascio che le immagini girino liberamente associandosi in modo assurdo, in attesa del sonno. Dove ho messo lo strigile? Qualcuno ha visto il mio strigile?



La Casa delle Madri di Daniele Petruccioli

    Mi sono deciso a scrivere due righe su questo romanzo che mi ha immerso così bene in una realtà non mia e che mi ha tenuto lì sotto sino...