Questo mio romanzo è
stato completamente rieditato da me proprio a causa del linguaggio dei protagonisti.
Come mai? Beh, per il solito dilemma lingua reale, lingua mimetica o lingua imprestata!
La prima stesura vedeva
i personaggi parlare una lingua vera, giovanile, sgrammaticata e un po’ gergale,
mentre i contenuti di ciò che dicevano erano abbastanza elevati per la loro
età, almeno per la prima parte del libro. Il fatto è che non mi ero proposto di
scrivere secondo i canoni del neorealismo. Una lingua “vera” su quattocento
pagine era pesante come il piombo (in realtà nella prima stesura le pagine
erano almeno il doppio). Meglio una lingua mimetica allora, ma anche così il
contrasto tra lingua sgrammaticata e concetti articolati era evidente e l’“obesità”
del testo continuava a rendere pesante la lettura. Alla fine ho deciso per la
terza opzione: una lingua presa a prestito dallo standard letterario dell’autore.
I personaggi parlano spesso in modo un
po’ educato (nel senso inglese di educated), ma questo è più coerente
con ciò che dicono. Non dico che adesso abbiano tutti fatto una dieta weight
watchers, ma col senno di poi a me
sembrano molto più accettabili.
D’altra
parte forse a molti non è chiara una cosa. I giovani degli anni 60 che avevano
appena finito di frequentare la prima parte del ginnasio (la media vecchia)
avevano una capacità speculativa e di eloquio oggi inimmaginabile nei ragazzi
coetanei. In quegli anni si contestava, ma soprattutto si discuteva e ci si
confrontava su tutto alla ricerca di controaltari al sistema. I giovani si
incontravano dovunque di persona, non c’erano i cellulari allora, soprattutto
per strada. In seguito con la politicizzazione della contestazione i discorsi
hanno continuato a crescere in luoghi più istituzionali, ma sempre con un’attenzione
ad un linguaggio “alto”. Dopo il 68 il politichese è diventato un esercizio per
molti leader-ini che volevano fare carriera (e purtroppo in molti casi ci sono
riusciti cambiando pelle all’occorrenza con nonchalance). La lingua da apprendere
serviva per essere riconosciuti, accettati. Una lingua come manifesto insomma e
proprio il Manifesto ha prodotto i più bei articoli nel sinistrese di quegli
anni (alcuni della Faranda li conservo ancora).
Usare
una lingua così pretenziosa in un romanzo capite bene che creava dei problemi
al limite del suicidio letterario. Le frasi che si sarebbero potute sentire dai
personaggi, nella seconda parte del mio romanzo, ve le riporto in seguito.
I miei anni universitari come quelli di Ric, il protagonista
io narrante, sono un brodo primordiale di ricordi, sensazioni, tante emozioni e
soprattutto tante parole che vorticavano dentro come uno sciame in fuga dall’arnia.
Se tento di fermare qualcosa nella sarabanda delle parole viene fuori un
pot-pourri persino divertente come:
“mordere sulla realtà della scuola subordinata al capitale,
unificazione delle forme di lotta per la collettivizzazione del salario in un
comportamento di massa determinato, dibattito permanente contro l’egemonia
culturale e l’invadenza del capitale nel processo di formazione
dell’apprendimento scolastico, rivendicazioni corporative e settarismo
velleitario dei gruppi, violenza di stato contro la battaglia delle idee,
bisogno di realizzare se stessi in un cascame di disumanizzanti rapporti di
potere, garantismo ideologico inconseguente e opportunistico, scazzarsi
oggettivamente, unanimità del consenso di affermazioni disfattiste,
deviazionismo di una democrazia monca e conflittuale di massa, alternativa
globale attraverso nodi strutturali di cogestione del potere studentesco,
riappropriarsi dello squassato spirito critico contro l’eversione, rifiutare il
rigorismo dei ruoli precostituiti, imborghesimento costruttivo conciliare
cucito addosso, contestazione globale per mezzo di contorsioni verbali,
prendere le distanze dalle scelte di campo strumentali, salario garantito
salario agli studenti, togliere spazio e iniziativa alla forza egemone, farsi
carico di valori consolidati, volontarismo parolaio, picconare il dispotismo,
coinvolgere le masse per colpire le istituzioni borghesi, collocarsi
oggettivamente in contro corsi autogestiti dai comitati di base, pressapochismo
e riproposizioni di rapporti di potere, rivendicare il rifiuto della
subordinazione, aderenza ai particolari circostanziati della vita quotidiana,
provocazione culturale inautentica, riduttiva ridefinizione dell’efficientismo
della gerarchia, riqualificazione del referendum per misurarsi con un reticolo
di misticismi ideologici, fare il gioco di formule ortodosse, convinzione
diffusa del rifiuto della delega, esimersi dal dubbio, accessi universitari
liberalizzati, nella misura in cui ti amo, interventi di sensibilizzazione
nella scuola di massa, cercare la propria identità nel nomadismo e nel napalm,
ritagliare il comune sforzo a fronte della lotta di classe, militanza per
servire il popolo, no alla delega ai daze-bao, gruppizzazione dello
spontaneismo, comunanza di interessi nel centralismo assembleare, ce n’est
qu’un debut continuez le combat, consigli autogestiti strumentalizzati, scusa
un momentino e il processo di formazione dove lo metti, tralignare sui
contenuti, non cagare il cazzo tecnocrate di merda, collaborazionismo a monte e
ascarismo a valle, parcheggio condizione dello studente, compartimentazione
dell’arbitrio e dell’alienazione, mobilitazione dell’intransigenza, pavé come
cinghie di trasmissione della lotta, sradicare ogni coartazione, rifluire nel
carrierismo, insubordinazione indotta, cronistoria del coagulo dell’autonomia,
consapevolezza dell’autocoscienza articolata, sterilizzazione di massa come
autoriduzione.”
Insomma fattevene un’idea. Così alla fine i giovani, e poi
gli stessi un po’ più cresciuti, si esprimono nel romanzo con una lingua di
comodo, neutra, presa in prestito dalla lingua dell’autore. Non pretendo di
avere risolto la difficoltà, ma almeno ci ho provato. L’effetto forse a
qualcuno potrà sembrare strano, ma non così tanto se ci si immerge nella
vicenda accettando il patto narrativo.
L’operazione mi ricorda un po’ quei pittori che dipingevano dando a tutte le persone ritratte nel quadro un’aria di famiglia come se si assomigliassero tutte. Probabilmente in quel caso l’aderenza al vero era meno importante del messaggio complessivo. Non so se per le mie pagine si possa dire lo stesso. In certe pagine il romanzo sarà anche pesante, ma la vita in fondo è così, un po’ leggera e scorrevole in certi momenti, dura e faticosa in altri.
L’operazione mi ricorda un po’ quei pittori che dipingevano dando a tutte le persone ritratte nel quadro un’aria di famiglia come se si assomigliassero tutte. Probabilmente in quel caso l’aderenza al vero era meno importante del messaggio complessivo. Non so se per le mie pagine si possa dire lo stesso. In certe pagine il romanzo sarà anche pesante, ma la vita in fondo è così, un po’ leggera e scorrevole in certi momenti, dura e faticosa in altri.