venerdì 12 aprile 2019

Quale lingua mettere in bocca ai personaggi?




Questo mio romanzo è stato completamente rieditato da me proprio a causa del linguaggio dei protagonisti. Come mai? Beh, per il solito dilemma lingua reale, lingua mimetica o lingua imprestata!
La prima stesura vedeva i personaggi parlare una lingua vera, giovanile, sgrammaticata e un po’ gergale, mentre i contenuti di ciò che dicevano erano abbastanza elevati per la loro età, almeno per la prima parte del libro. Il fatto è che non mi ero proposto di scrivere secondo i canoni del neorealismo. Una lingua “vera” su quattocento pagine era pesante come il piombo (in realtà nella prima stesura le pagine erano almeno il doppio). Meglio una lingua mimetica allora, ma anche così il contrasto tra lingua sgrammaticata e concetti articolati era evidente e l’“obesità” del testo continuava a rendere pesante la lettura. Alla fine ho deciso per la terza opzione: una lingua presa a prestito dallo standard letterario dell’autore. I personaggi parlano spesso in modo un  po’ educato (nel senso inglese di educated), ma questo è più coerente con ciò che dicono. Non dico che adesso abbiano tutti fatto una dieta weight watchers, ma col senno di  poi a me sembrano molto più accettabili.
D’altra parte forse a molti non è chiara una cosa. I giovani degli anni 60 che avevano appena finito di frequentare la prima parte del ginnasio (la media vecchia) avevano una capacità speculativa e di eloquio oggi inimmaginabile nei ragazzi coetanei. In quegli anni si contestava, ma soprattutto si discuteva e ci si confrontava su tutto alla ricerca di controaltari al sistema. I giovani si incontravano dovunque di persona, non c’erano i cellulari allora, soprattutto per strada. In seguito con la politicizzazione della contestazione i discorsi hanno continuato a crescere in luoghi più istituzionali, ma sempre con un’attenzione ad un linguaggio “alto”. Dopo il 68 il politichese è diventato un esercizio per molti leader-ini che volevano fare carriera (e purtroppo in molti casi ci sono riusciti cambiando pelle all’occorrenza con nonchalance). La lingua da apprendere serviva per essere riconosciuti, accettati. Una lingua come manifesto insomma e proprio il Manifesto ha prodotto i più bei articoli nel sinistrese di quegli anni (alcuni della Faranda li conservo ancora).
Usare una lingua così pretenziosa in un romanzo capite bene che creava dei problemi al limite del suicidio letterario. Le frasi che si sarebbero potute sentire dai personaggi, nella seconda parte del mio romanzo, ve le  riporto in seguito.
I miei anni universitari come quelli di Ric, il protagonista io narrante, sono un brodo primordiale di ricordi, sensazioni, tante emozioni e soprattutto tante parole che vorticavano dentro come uno sciame in fuga dall’arnia. Se tento di fermare qualcosa nella sarabanda delle parole viene fuori un pot-pourri persino divertente come:

“mordere sulla realtà della scuola subordinata al capitale, unificazione delle forme di lotta per la collettivizzazione del salario in un comportamento di massa determinato, dibattito permanente contro l’egemonia culturale e l’invadenza del capitale nel processo di formazione dell’apprendimento scolastico, rivendicazioni corporative e settarismo velleitario dei gruppi, violenza di stato contro la battaglia delle idee, bisogno di realizzare se stessi in un cascame di disumanizzanti rapporti di potere, garantismo ideologico inconseguente e opportunistico, scazzarsi oggettivamente, unanimità del consenso di affermazioni disfattiste, deviazionismo di una democrazia monca e conflittuale di massa, alternativa globale attraverso nodi strutturali di cogestione del potere studentesco, riappropriarsi dello squassato spirito critico contro l’eversione, rifiutare il rigorismo dei ruoli precostituiti, imborghesimento costruttivo conciliare cucito addosso, contestazione globale per mezzo di contorsioni verbali, prendere le distanze dalle scelte di campo strumentali, salario garantito salario agli studenti, togliere spazio e iniziativa alla forza egemone, farsi carico di valori consolidati, volontarismo parolaio, picconare il dispotismo, coinvolgere le masse per colpire le istituzioni borghesi, collocarsi oggettivamente in contro corsi autogestiti dai comitati di base, pressapochismo e riproposizioni di rapporti di potere, rivendicare il rifiuto della subordinazione, aderenza ai particolari circostanziati della vita quotidiana, provocazione culturale inautentica, riduttiva ridefinizione dell’efficientismo della gerarchia, riqualificazione del referendum per misurarsi con un reticolo di misticismi ideologici, fare il gioco di formule ortodosse, convinzione diffusa del rifiuto della delega, esimersi dal dubbio, accessi universitari liberalizzati, nella misura in cui ti amo, interventi di sensibilizzazione nella scuola di massa, cercare la propria identità nel nomadismo e nel napalm, ritagliare il comune sforzo a fronte della lotta di classe, militanza per servire il popolo, no alla delega ai daze-bao, gruppizzazione dello spontaneismo, comunanza di interessi nel centralismo assembleare, ce n’est qu’un debut continuez le combat, consigli autogestiti strumentalizzati, scusa un momentino e il processo di formazione dove lo metti, tralignare sui contenuti, non cagare il cazzo tecnocrate di merda, collaborazionismo a monte e ascarismo a valle, parcheggio condizione dello studente, compartimentazione dell’arbitrio e dell’alienazione, mobilitazione dell’intransigenza, pavé come cinghie di trasmissione della lotta, sradicare ogni coartazione, rifluire nel carrierismo, insubordinazione indotta, cronistoria del coagulo dell’autonomia, consapevolezza dell’autocoscienza articolata, sterilizzazione di massa come autoriduzione.

Insomma fattevene un’idea. Così alla fine i giovani, e poi gli stessi un po’ più cresciuti, si esprimono nel romanzo con una lingua di comodo, neutra, presa in prestito dalla lingua dell’autore. Non pretendo di avere risolto la difficoltà, ma almeno ci ho provato. L’effetto forse a qualcuno potrà sembrare strano, ma non così tanto se ci si immerge nella vicenda accettando il patto narrativo.
L’operazione  mi ricorda un po’ quei pittori che dipingevano dando a tutte le persone ritratte nel quadro un’aria di famiglia come se si assomigliassero tutte. Probabilmente in quel caso l’aderenza al vero era meno importante del messaggio complessivo. Non so se per le mie pagine si possa dire lo stesso. In certe pagine il romanzo sarà anche pesante, ma la vita in fondo è così, un po’ leggera e scorrevole in certi momenti,  dura e faticosa in altri. 




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