domenica 13 ottobre 2019

Un'esperienza più che una lettura: Lo scopatore di anime di Pablo T .

La maggior parte dei blog letterari propongono regolarmente dei libri da leggere e si occupano di recensioni. Per i loro curatori è un’attività a tempo pieno e in quasi tutti i casi non sono amministrati da una sola persona, bensì da diversi collaboratori, sino a staff strutturati in organigramma aziendale. A quel punto il blogger è un vero mestiere e il lavoro, come è sempre giusto, dev’essere retribuito, magari attraverso inserzioni pubblicitarie.
Questo blog, nato in funzione di un romanzo specifico: Tu l’hai visto Easy Rider?, non funziona in questo modo.
Qui state leggendo una pagina aperta di diario, dove il curatore esprime delle idee perché siano il seme di una bella chiacchierata e nulla di più. Qui non si vuole né pontificare, né insegnare, semmai apprendere e sperare di crescere.
D’altra parte qualche volta potrà capitare che in queste pagine siano focalizzati alcuni testi, come quello di cui sento il bisogno di scrivere di seguito.
Ho scelto di segnalare il romanzo di Pablo T, dal titolo Scopatore di anime, per la sua particolare forza espressiva ed evocativa che, per il gusto della ripetizione ossessiva di varianti, mi ricorda l’orfismo di Diego Campana. Al di là dei giudizi che si possono dare, il romanzo ha il pregio di non lasciare nessuno illeso. D’altra parte è difficile non essere impolverati se un tornado ti è passato addosso. Sì, perché la sensazione che si prova è qualcosa che ti frulla ben bene la mente in un turbine di parole e di sensazioni.
Già dal titolo provocatorio, Lo scopatore di anime, Pablo T ti fa capire che la lettura non sarà una passeggiata. Questo non è un libro consumistico, semmai ti consuma nelle intenzioni, violentandoti fino alla consapevolezza di chi sei, del mondo in disfacimento che ti  circonda. Comunque quel titolo lo si voglia intendere, seducente promessa di un godimento erotico per l’anima o del suo stupro, il risultato non cambia: nulla sarà come prima se avrai aperto gli occhi, soprattutto se sarai finalmente consapevole di chi, invece, sinora ti ha scopato il cervello.  
Lo scopatore di anime, a mio avviso,  mostra tutte le caratteristiche stilistiche presenti nei romanzi successivi dell’autore, a cominciare dall’uso volutamente eccessivo delle figure retoriche tipiche della poesia. Infatti la prosa di Pablo T è prosa d’arte, da gustare ad alta voce, nella quale il linguaggio diventa a tratti poetico, con vere e proprie rime interne e allitterazioni, che si rincorrono alla ricerca vana del versus per poter prendere fiato e andare finalmente accapo. A tratti invece il linguaggio si fa prosastico sino a raggiungere toni da postribolo. E’ l’alternanza di modi espressivi di un amplesso col lettore che ritarda di continuo l’orgasmo per prolungare il piacere. La prosa d’arte alla fine del libro diviene poesia tout court ed è quindi libera finalmente di dar vita, nell’epilogo, al proprio sfogo.
La lingua che si avvale di più registri espressivi, dall’aulico al triviale, ha ascendenti illustri nel Simbolismo francese e soprattutto nel suo anticipatore, Baudelaire. Pablo T sembra avvalersi non di un solo albatros, bensì di un intero stormo, tanto le parole scorrono come un fiume in piena o l’acqua di una cascata che impedisca persino di riprendere fiato. Le figure retoriche si inseguono a ritmi serrati, dalle più ampie e ricche similitudini, ai paragoni, alle metafore, alle metonimie, sino ai simboli, che non sono mai facili da decodificare per analogia, lontani da quelli immediati d’uso corrente e che pertanto richiedono al lettore la sua partecipazione per reinventare la realtà ed attribuirvi significati nuovi. Non è forse questo il senso proprio delle Correspondances baudelariane e del Simbolismo?
Così quando nel romanzo la prosa si fa poesia, i significati si moltiplicano, la semantica delle parole si amplifica, si arricchisce di nuovi sensi e con essi nuove emozioni, nuovi orgasmi per l’anima.


giovedì 26 settembre 2019

Ripresa dopo l’assenza


Mi decido a riaprire un’altra parentesi sulla mia relazione con la parola scritta e lo faccio dopo mesi di lavoro sulla pagina bianca da cui sono saltati fuori due libri attualmente in cerca di editore. 
Il primo è un romanzo per ragazzi, un misto di favola e fiaba, una suggestione che mi frullava in testa da molto tempo. 
La mia terra è ricca di leggende e di strane creature che la imparentano con la tradizione celtica d’oltralpe. I racconti popolari ne sono pieni e ci sono alcuni luoghi che più di altri trasudano magia e voglia di irrazionale. Il secondo è il racconto della vita degli ultimi animali da compagnia che sono entrati in casa mia e della loro interazione con gli umani che vi abitavano. Questo romanzo di più voci narranti, che si alternano in forma diaristica, è stato la cura per elaborare la perdita di tutto l’amore che ho ricevuto negli anni. Di questi romanzi avremo modo di occuparci dopo che saranno, se mai, pubblicati.
Perché proprio ora? Quale la causa scatenante per la ripresa di un blog che nessuno o quasi legge, almeno secondo il numero dei commenti?
Semplice, Tu l’hai visto Easy Rider? è prossimo alla stampa. Presto dovrei ricevere il risultato dell’editing.
A questo proposito due cose sulla figura dell’editor mi piacerebbe scriverle. L’editor è utile, non indispensabile. A me fa di sicuro comodo, perché anche se io stesso sono stato editor per un breve periodo giovanile, quando si è così presuntuosi da pensare che come scrivi tu non scrive nessuno, sono così distratto che, pur dopo numerose letture, c’è sempre qualcosa da sistemare o da correggere.
Mi stupisco quando qualcuno mi fa notare le mie sviste e so che non mi sarebbero passate inosservate leggendo un testo altrui. Tuttavia sono quanto di più distante da un maestrino dalla penna rossa, che corregge ogni cosa che non sia canonico. Ci sono errori che nei registri giusti vanno bene così e danno colore al grigio della grammatica. Fanno bene gli inglesi a distinguere tra mistakes ed errors. I secondi sono da evitare, fanno raggelare il sangue, mentre i primi sono peccati veniali che pescano nel linguaggio della strada. Purtroppo a leggere quel che afferma il popolo “saputo” dei social, ogni minima deviazione alla norma, una qualche curvatura stilistica tangente all’ortodossia, viene criticata aspramente con il massimo disprezzo. Naturalmente più i consensi si accumulano durante il linciaggio e più l’effetto catartico dei defensor fidei della lingua italiana, sarà appagante.
La lingua italiana, come tutte le lingue, si evolve o comunque si modifica proprio per gli errori d’uso, e non c’è niente che si possa fare, rassegnatevi. Mi pare che anche Tullio De Mauro fosse comprensivo da questo punto di vista.
Vorrebbero quei detrattori scrivere ancora come il Tommaseo di Fede e Bellezza? Lui di lingua italiana se ne intendeva davvero! Però chi lo regge più Fede e Bellezza! Persino il comodino, sul quale lo avete posto per leggerlo prima di addormentarvi, alimentando qualche speranza di un sonno precoce, potrebbe franare sotto  il suo peso!
Chissà se è vero che tutti tipi di violenza hanno radici nelle profonde frustrazioni dei recessi dell’io! Lascio la cosa a chi ne sa più di me, ci manca anche di fare gli psicologi! Anche per questo c’è Facebook.
Prima di perdermi in piacevoli digressioni, per me solo naturalmente ma tanto chi mi legge!, riacchiappo il filo logico del discorso. 
E se il mio editor fosse un giovane purista neolaureato o se fosse uscito da poco da uno di quei corsi nei quali impari un prontuario di dettami rigidi sul ‘così va bene e così no’? Già vedo la descrizione che ho corretto una decina di volte, soppesando le sillabe manco fosse stata poesia, tutta piegata alle regole del bon ton grammaticale. Ora sono al di qua della staccionata e giuro di pentirmi di avere duellato con un autore per un caracollare di troppo o della necessità della paratassi. In realtà duellavo di più per i contenuti che non per la forma, perché da sola la forma è solo un bel vestito della domenica.
Ricordo un romanzo che era una serie di eventi e privo o quasi di descrizioni, di atmosfere. Avevi voglia di dire che ciò che si stava sviluppando in quel capitolo, dove il grande parco era il collante delle vicende, avrebbe trovato giovamento da una maggiore attenzione alle atmosfere in sintonia coi personaggi. Tutto inutile. Gli autori si battono come leoni per un aggettivo, figuriamoci per delle descrizioni. D’altra parte D’Annunzio non lesinava qualificativi, perché dovrebbero loro?
Dunque dovrò perdere tempo a discutere su correzioni che non approvo? Non sono così presuntuoso da non saper vedere quando qualcosa funziona meglio di come l’avevo pensato io! Anzi, non finirò mai abbastanza di ringraziare chi mi ha fatto notare certe cose e mi ha corretto le bozze dove io avrei lasciato perdere, ma resto ancora un po’ perplesso. Intanto un editor deve per forza trovare qualcosa da modificare,  altrimenti viene meno la sua funzione  e il suo stipendio, poi la sua preparazione di base, se non è suffragata da una marea di letture e una sensibilità che va oltre ogni tecnica, è fatta di tassonomie classificatorie degli errori che rischiano di appiattire il linguaggio, di omologarlo ad uno standard prefissato di una qualche accademia. Questo forse può andare bene per il linguaggio giornalistico, ma poi si sente dire in giro che ormai gli articoli sembrano tutti uguali. Per forza se si usano i codici in modo pedissequo e non li si piega alla personalità di un individuo!
Andando avanti così sarà sempre più facile che siano le intelligenze artificiali a scrivere i romanzi. I migliori ghost writers! Lo scrittore dovrà solo stendere un ordito imperfetto e i computer completeranno la trama con una vasta gamma di eventi e descrizioni in un linguaggio ineccepibile. Lo scrittore potrà sempre provare con altre variabili se non sarà soddisfatto, così come facciamo con le foto del cellulare quando scegliamo quale sarà il migliore effetto tra una serie di opzioni.
Bene, avrei finito di scrivere il mio apporto di sciocchezze. Se qualcuno volesse unirsi a me,  senza polemiche però, per favore perché le cose che scriviamo qui non servono a cambiare il mondo, sia il benvenuto!
Poi magari, chissà!

giovedì 18 aprile 2019

Paragrafo. Uso dei paragrafi. Paragrafare.


Dobbiamo partire dalla premessa che andare a capo è uno stacco importante. Il versus è infatti l’accapo e secondo Jean Cohen nella Struttura del linguaggio poetico è ciò che distingue la poesia dalla prosa. Secondo lui la prosa è una linea continua che potrebbe andare avanti all'infinito e che va a capo solo perché la pagina finisce. Quindi quando paragrafiamo facciamo una pausa imprecisata, ma in teoria lunghissima.
In poesia il verso ha la stessa funzione imprecisata. Ungaretti quando leggeva le sue poesie faceva delle pause  tra suoni e sillabe, che poi diventavano davvero lunghe tra un verso e l'altro e spesso, come è noto, i suoi versi consistevano di  singole parole.
Questo vuol dire che bisogna considerare il paragrafo come un'entità finita (all’interno di pause indeterminate), un po’come se fosse una sola riga dalla quale occorra un’interruzione prima di saltare a quella successiva.
Naturalmente la poesia ha esigenze metriche di musicalità che la prosa ha in maniera ridotta tant'è da risultare molto più facilmente traducibile nelle altre lingue.
Sia ben chiaro: io non mi invento nulla. Coloro che citano in continuazione fonti autorevoli lo fanno per due ragioni: o sono spocchiosi e vogliono esibire saccenteria oppure non vogliono sembrar presuntuosi e si servono delle citazioni per mostrare che tutto il sapere viene da qualche parte. Ecco diciamo che mi schiererei volentieri coi secondi con la aggravante di avere la memoria del pesce rosso, ragion per cui evito di fare la ricerca nel dimenticatoio del mio patrimonio di nozioni. Nulla inventa nulla. Tutti rielaboriamo ciò che apprendiamo. Io non faccio neppure quello.
Dunque qual è la regola per confezionare bene un paragrafo? Ormai sulla rete troverete le tante risposte a questo quesito, ma diciamo che una regola rigida non c'è. Un po’ come si fa per l'uso del punto, l'uso dipende da quando intendiamo finito il discorso, che coincide in genere con un'idea o un argomento, con un ambito che si chiude.
Come vedete io ne faccio un gran uso. Una volta li usavo molto meno. Che cosa mi ha fatto cambiare? Diventare un lettore seriale. Siccome leggo molto mi sono reso conto che è meno faticoso leggere con pause frequenti piuttosto che leggere intere paginate di frasi. Qualche volta andare a capo può sembrare eccessivo perché l'argomento tra i due paragrafi è lo stesso, ma sta a chi scrive sentire il contrappunto di informazioni che i messaggi veicolano e usare soggettivamente lo strumento paragrafo.
Nel mio romanzo Tu l'hai visto Easy Rider? ho cercato di andare a capo il più possibile, magari isolando alcuni concetti in un paragrafo di un solo periodo.
Mi sono reso conto sin dall'inizio che ambientare un romanzo nel 68 e dintorni avrebbe creato problemi di pesantezza e oggi sembra che nessuno voglia più leggere fiction impegnativa, a parte la saggistica ovviamente, che però ha la sua nicchia di cultori intellettuali. Anche se ho evitato con cura le pastoie delle ideologie politiche, a costo di rasentare il qualunquismo, alla fine almeno il sapore di un periodo storico vissuto dalle personae da me create dovevo pure mettercelo. I risultati poi sono alla mercé della critica. Come sempre a mia discolpa posso solo dire di averci almeno provato (adesso è l'ora che vada a capo.)
Non so se aver impestato il libro di paragrafi possa aver alleggerito certe parti più impegnative. Mi auguro di sì. Contavo sul fatto che a metà del libro il lettore dovrebbe essere già abbastanza coinvolto nelle storie dei personaggi da desiderare di sapere come sarebbe andata a finire. Per una lettrice è andata esattamente così, ma vincevo facile perché era mia moglie. Attendo sempre tanti feedback così da essere in grado di farmi un'idea più precisa.
Il testo è in lettura presso un editore perché desidero dargli un aspetto cartaceo.
Vedete, per quanto ti sforzi di essere avanti e di preferire l'informatico al cartaceo alla fine, e qui casca l'asino, non ti sembra di aver pubblicato nulla se non è fatto di pagine fruscianti. Sono datato!

venerdì 12 aprile 2019

Quale lingua mettere in bocca ai personaggi?




Questo mio romanzo è stato completamente rieditato da me proprio a causa del linguaggio dei protagonisti. Come mai? Beh, per il solito dilemma lingua reale, lingua mimetica o lingua imprestata!
La prima stesura vedeva i personaggi parlare una lingua vera, giovanile, sgrammaticata e un po’ gergale, mentre i contenuti di ciò che dicevano erano abbastanza elevati per la loro età, almeno per la prima parte del libro. Il fatto è che non mi ero proposto di scrivere secondo i canoni del neorealismo. Una lingua “vera” su quattocento pagine era pesante come il piombo (in realtà nella prima stesura le pagine erano almeno il doppio). Meglio una lingua mimetica allora, ma anche così il contrasto tra lingua sgrammaticata e concetti articolati era evidente e l’“obesità” del testo continuava a rendere pesante la lettura. Alla fine ho deciso per la terza opzione: una lingua presa a prestito dallo standard letterario dell’autore. I personaggi parlano spesso in modo un  po’ educato (nel senso inglese di educated), ma questo è più coerente con ciò che dicono. Non dico che adesso abbiano tutti fatto una dieta weight watchers, ma col senno di  poi a me sembrano molto più accettabili.
D’altra parte forse a molti non è chiara una cosa. I giovani degli anni 60 che avevano appena finito di frequentare la prima parte del ginnasio (la media vecchia) avevano una capacità speculativa e di eloquio oggi inimmaginabile nei ragazzi coetanei. In quegli anni si contestava, ma soprattutto si discuteva e ci si confrontava su tutto alla ricerca di controaltari al sistema. I giovani si incontravano dovunque di persona, non c’erano i cellulari allora, soprattutto per strada. In seguito con la politicizzazione della contestazione i discorsi hanno continuato a crescere in luoghi più istituzionali, ma sempre con un’attenzione ad un linguaggio “alto”. Dopo il 68 il politichese è diventato un esercizio per molti leader-ini che volevano fare carriera (e purtroppo in molti casi ci sono riusciti cambiando pelle all’occorrenza con nonchalance). La lingua da apprendere serviva per essere riconosciuti, accettati. Una lingua come manifesto insomma e proprio il Manifesto ha prodotto i più bei articoli nel sinistrese di quegli anni (alcuni della Faranda li conservo ancora).
Usare una lingua così pretenziosa in un romanzo capite bene che creava dei problemi al limite del suicidio letterario. Le frasi che si sarebbero potute sentire dai personaggi, nella seconda parte del mio romanzo, ve le  riporto in seguito.
I miei anni universitari come quelli di Ric, il protagonista io narrante, sono un brodo primordiale di ricordi, sensazioni, tante emozioni e soprattutto tante parole che vorticavano dentro come uno sciame in fuga dall’arnia. Se tento di fermare qualcosa nella sarabanda delle parole viene fuori un pot-pourri persino divertente come:

“mordere sulla realtà della scuola subordinata al capitale, unificazione delle forme di lotta per la collettivizzazione del salario in un comportamento di massa determinato, dibattito permanente contro l’egemonia culturale e l’invadenza del capitale nel processo di formazione dell’apprendimento scolastico, rivendicazioni corporative e settarismo velleitario dei gruppi, violenza di stato contro la battaglia delle idee, bisogno di realizzare se stessi in un cascame di disumanizzanti rapporti di potere, garantismo ideologico inconseguente e opportunistico, scazzarsi oggettivamente, unanimità del consenso di affermazioni disfattiste, deviazionismo di una democrazia monca e conflittuale di massa, alternativa globale attraverso nodi strutturali di cogestione del potere studentesco, riappropriarsi dello squassato spirito critico contro l’eversione, rifiutare il rigorismo dei ruoli precostituiti, imborghesimento costruttivo conciliare cucito addosso, contestazione globale per mezzo di contorsioni verbali, prendere le distanze dalle scelte di campo strumentali, salario garantito salario agli studenti, togliere spazio e iniziativa alla forza egemone, farsi carico di valori consolidati, volontarismo parolaio, picconare il dispotismo, coinvolgere le masse per colpire le istituzioni borghesi, collocarsi oggettivamente in contro corsi autogestiti dai comitati di base, pressapochismo e riproposizioni di rapporti di potere, rivendicare il rifiuto della subordinazione, aderenza ai particolari circostanziati della vita quotidiana, provocazione culturale inautentica, riduttiva ridefinizione dell’efficientismo della gerarchia, riqualificazione del referendum per misurarsi con un reticolo di misticismi ideologici, fare il gioco di formule ortodosse, convinzione diffusa del rifiuto della delega, esimersi dal dubbio, accessi universitari liberalizzati, nella misura in cui ti amo, interventi di sensibilizzazione nella scuola di massa, cercare la propria identità nel nomadismo e nel napalm, ritagliare il comune sforzo a fronte della lotta di classe, militanza per servire il popolo, no alla delega ai daze-bao, gruppizzazione dello spontaneismo, comunanza di interessi nel centralismo assembleare, ce n’est qu’un debut continuez le combat, consigli autogestiti strumentalizzati, scusa un momentino e il processo di formazione dove lo metti, tralignare sui contenuti, non cagare il cazzo tecnocrate di merda, collaborazionismo a monte e ascarismo a valle, parcheggio condizione dello studente, compartimentazione dell’arbitrio e dell’alienazione, mobilitazione dell’intransigenza, pavé come cinghie di trasmissione della lotta, sradicare ogni coartazione, rifluire nel carrierismo, insubordinazione indotta, cronistoria del coagulo dell’autonomia, consapevolezza dell’autocoscienza articolata, sterilizzazione di massa come autoriduzione.

Insomma fattevene un’idea. Così alla fine i giovani, e poi gli stessi un po’ più cresciuti, si esprimono nel romanzo con una lingua di comodo, neutra, presa in prestito dalla lingua dell’autore. Non pretendo di avere risolto la difficoltà, ma almeno ci ho provato. L’effetto forse a qualcuno potrà sembrare strano, ma non così tanto se ci si immerge nella vicenda accettando il patto narrativo.
L’operazione  mi ricorda un po’ quei pittori che dipingevano dando a tutte le persone ritratte nel quadro un’aria di famiglia come se si assomigliassero tutte. Probabilmente in quel caso l’aderenza al vero era meno importante del messaggio complessivo. Non so se per le mie pagine si possa dire lo stesso. In certe pagine il romanzo sarà anche pesante, ma la vita in fondo è così, un po’ leggera e scorrevole in certi momenti,  dura e faticosa in altri. 




martedì 2 aprile 2019

Scrivere usando uno pseudonimo



Che cosa spinge uno scrittore ad usare uno pseudonimo? Saranno molte le ragioni e intanto dovrei dare conto anch’io della mia scelta che è in parte pudore, un carattere poco incline ad esporsi e soprattutto il senso della split nature letteraria.
Intanto il nome, Giordano. Tecnicamente sarebbe il mio secondo nome. Ogni tanto in famiglia spunta fuori, ma grazie a dio non è stato dato all’anagrafe, perché come sanno tutti quelli che ne hanno più di uno, avere più nomi per le pratiche burocratiche è talvolta una rottura di scatole. Ti porti dietro un nome che non usi, che nessuno conosce, ma che viene fuori con prepotenza, ogni volta che devi firmare un documento, come il corpo morto della barca.
Vezzani invece non mi apparteneva, ma le ragioni del cuore mi hanno indotto a servirmene, per sentirmi in qualche modo più vicino a una persona per me davvero speciale. Questa persona, dell’ambiente letterario, mi ha aiutato a pensare di essere io stesso uno scrittore. Ancora adesso cerco di seguire l’esempio di chi, pur in possesso di una personale concezione ideologica del vivere sociale, non aveva pregiudizi nei confronti di nessuno scrittore che si sforzava di comprendere sempre all’interno della sua stessa espressione artistica. La consapevolezza che lo scrittore anche il più militante, con questo mai esente dalle sue responsabilità, si ponga comunque in un livello “a parte” dove incontrare l’altro sia sempre possibile, era una delle cose che più mi piacevano.
Lo scrittore è uno che deve essere libero, sempre, anche di sbagliare, perché la sua arte sarà utile, a prescindere dall’esegesi.
Nella Storia della Letteratura ci sono molti esempi illustri. Vi risparmio elenchi.
Scrittori si sono nascosti letteralmente dietro nomi che dovevano proteggerli da pericoli reali o soltanto da pregiudizi, come quando chi scrive usa il genere di sesso opposto (George Sand). Altri hanno usato un riparo dalle critiche, non volendo esporsi e magari bruciare l’immagine pubblica di sé insieme a quella del romanziere.
Ci sono poi coloro che, come ho accennato all’inizio, adottano uno o più pseudonimi a seconda di ciò che scrivono, per non portarsi dietro da un genere all’altro le scomode produzioni delle altre personalità letteraria (un po’ come per Joanne Kathleen Rowling/ Robert Galbraith).
Per alcuni forse è stato un vezzo, soprattutto se non coperto dall’anonimato, per altri una reticenza per timidezza al limite del patologico. Come tutti gli alias lo pseudonimo nell’anonimato può suicidarsi in ogni momento e sparire nell’oblio senza pesare sulla biografia dello scrittore. Da questo punto di vista in effetti presenta qualche vantaggio se sei nessuno e non vuoi rischiare di fare brutte figure. L’altra faccia della medaglia è che per non rimetterci la faccia, mi si scusi il bisticcio, si rinuncia a comparire come persona reale, ai contatti fisici, agli “onori”, così importanti per la maggior parte degli esseri umani. In questo caso l’artista tiene tanto alla sua privacy da rinunciare a tutto questo, pur volendo lanciare pensieri che comunichino utilitaristicamente con il resto della sua specie.
Che dire? Cosa c’è di sbagliato in questo? Nulla, visto che gli pseudonimi aumentano anche tra i selezionati allo Strega. Chi vuole trovarsi un nome lo faccia. Si trovi una bella motivazione e lo faccia. Tutto qua.




venerdì 22 marzo 2019

Omologazione stilistica, linguaggio standardizzato. E’ così che gli esordienti devono scrivere?



     Sul Web fioriscono ogni giorno siti di scrittura creativa per aspiranti scrittori, come se non bastassero quelli che si possono frequentare con persone reali, e sembra che tutti siano presi dalla mania di scrivere, mentre di leggere non se ne parla. Falso. Ogni giorno fioriscono gruppi di lettura e sono ancora in parecchi a leggere. Di nuovo c’è magari che con l’avvento di internet i lettori vogliono dire la loro e lo fanno spesso in qualità di recensori o frequentatori di blog, e così scrivono pure.
     Gianni Riotta ci ha ricordato in un tweet recente, probabilmente per lamentarsi della scarsa qualità dei romanzi in circolazione, che si leggono troppi cattivi thriller invece di letteratura più impegnata. Beh, Gianni, non c’è bisogno di ricorrere alla sociologia per capire che il fenomeno è storico. Negli anni 50, con la guerra fredda, negli Stati Uniti e non solo, pullulava la fantascienza per esorcizzare la paura dell’invasione dal pianeta “rosso”.
     Oggi certa “paraletteratura” serve come evasione e intrattenimento per menti disimpegnate oppure risponde ad esigenze precise? La casalinga legge di feroci serial killer per esorcizzare la paura di cosa potrà accaderle in metropolitana o mentre accompagna il figlio a scuola?  Forse cerca solo un po' di sana catarsi per scrollarsi di dosso la prevedibile quotidianità e per affrontare meglio altre paure molto più concrete, come arrivare a fine mese. È pur vero che la signora vive in un mondo dove i comportamenti paranoici sono la regola ma, domandiamoci, quanta parte hanno i media in questa follia quando esasperano i fatti sino alla loro mistificazione? Fate voi, ma tenete presente che i comportamenti sociali di massa (oddio è piuttosto ottimistico associare la parola massa all’universo letterario) non si producono per accidenti casuali.
     Ad ogni modo questa era solo l’elefantiaca premessa all’argomento del post che riguarda la tendenza a standardizzare la scrittura creativa. Ripeto, la cosa che più ricorre nelle recensioni degli esordienti sono le critiche sistematiche ai difetti linguistici e stilistici di chi non segue un  protocollo preciso.
     Permettetemi un inciso. Quando ero ragazzo guai a fotografare sfuocando, contrastando, a usare i toni alti ecc. Poi cresci e ti rendi conto che i grandi fotografi se ne sono sempre fregati bellamente delle regole e fanno quello che vogliono, purché il risultato lasci senza fiato o abbia un senso estetico. Ecco nella letteratura è lo stesso: i grandi se ne fregano delle regole. Ciò non giustifica, né autorizza, tutti gli altri a credersi dei geni solo perché fanno come loro. Si tratta di un sillogismo imperfetto e vale solo se si ha la consapevolezza di aver infranto le regole dopo averle padroneggiate pienamente.
     In rete ho rimediato un post firmato cosmopolitica che riporto di seguito in quanto mi vede totalmente d’accordo. Sono sicuro che io non avrei potuto pensare a niente di meglio. È il commento alla solita lamentazione della mancanza di “professionalità” degli scrittori cosiddetti esordienti:
“Con questi criteri utili ma generici, la maggior parte della grande letteratura che leggiamo e a cui ci ispiriamo sarebbe rimasta nel cassetto, ignorata da lettori e critici. Questi sono i consigli che si darebbero a chi deve scrivere un tema a scuola o un racconto per una scuola di scrittura creativa. Il punto più esilarante sono le interminabili descrizioni degli oggetti. Cosa significa? Mah... basti pensare a un racconto di fantascienza: senza descrizioni che ricreano il mondo funzionale sulla pagina, sarebbe impensabile mandare avanti la narrazione dove sono funzionali anche le parti descrittive. E una fiction che punti sulla creazione di un mondo attraverso uno stile peculiare, non so, tipo le descrizioni in un romanzo come Vita di Pi? O il Castello di Kafka? Altra cosa ridicola: usare pochi aggettivi e pochi avverbi: l’incipit di Absalom, Ablsalom! di Faulkner ha ben cinque aggettivi che connotano il pomeriggio di Settembre con cui si apre la narrazione: bellissimi, esagerati, evocativi. Il mio suggerimento: leggere gli scrittori bravi e riscrivere, riscrivere, riscrivere. La lingua è la base del romanzo. Senza un lavoro serio sulla lingua, meglio darsi alla pubblicità, o al taglio e cucito, attività dignitose di certe opere pubblicate oggi con lavori di editing a tavolino per livellare tutto come in una catena di montaggio. Con buona pace per i dispensatori di consigli. E poi, è mai possibile che i personaggi debbano essere sempre più ignoranti dei lettori? Il bello della lettura (e della scrittura che la sollecita) è proprio il suo carattere di sfida nei confronti del testo.”
     Insomma i grandi si permettono cose che i piccoli non possono fare, perché sarebbero sanzionati. Questo che cosa vuol dire? Che lo scrittore sconosciuto debba scrivere secondo uno stile omologato sino al giorno quando, diventato “importante”,  anche lui potrà finalmente cominciare a trovare la sua diversità, la sua strada, il suo stile? Un’assurdità, perché nel mare magnum dell’indistinto chi potrà emergere sarà sempre chi sarà aiutato dalla fortuna letteraria. 
     Mi vengono in mente il fiore nel deserto e la gemma in fondo al mare che nessuno vedrà mai di cui parla Thomas Grey nell’Elegy.  Per permettere ad alcuni di avere fortuna certa è giusto rischiare di perdere per sempre i messaggi di altri? Non è forse meglio che, come stanno le cose oggi, tutti abbiano democraticamente la possibilità di gettare il proprio contributo, la propria testimonianza,  nel mare magnum e lasciare che le cose vadano come devono andare, perché non si sa mai cosa ci riserva il futuro? 
     Lo so, è un po’ romantica questa visione del destino dei libri, però perché non consentire a chicchessia di pubblicare i proprio pensieri e magari di sognare. Da biasimare sono semmai coloro che sfruttano l’ingenuità, come gli editori a pagamento e tutta una serie di nuovi ribaldi approfittatori che offrono servizi di ogni tipo per alimentare questa sorta di fiera delle vanità. 
    Mi aspetto commenti pour parler e non per far polemiche. Ci aggiorniamo.


venerdì 15 marzo 2019

Genesis. Come questo romanzo è stato pensato.


     La necessità di dire la mia su quegli anni è stata la prima spinta, senza dubbio. Mi pareva che allora in Italia ci fossero troppe mistificazioni del 68, liquidato magari come mito scomodo, oppure una eccessiva focalizzazione sull’aspetto politico che ha prodotto in alcuni Stati gli anni di piombo. Purtroppo la nostra Storia è stata anche quella, ma non solo. Soprattutto il nostro Paese è caratterizzato da un forte provincialismo che ha stemperato in esiti diversi gli stimoli, la voglia di cambiamento di un mondo migliore, che attraversavano allora l’intero pianeta.
     Per chi viveva in periferia tutta questa idea del mondo sottosopra poteva non arrivare neanche lontanamente a sfiorare le coscienze. Arrivavano comunque informazioni, atteggiamenti, mode, alcuni aspetti della contestazione, magari solo superficiali, o solo legati all’apparire. Tuttavia non si può generalizzare e creare tipologie di comodo, perché comunque dovunque poteva esserci qualcuno che attraverso i media drizzava le antenne, recepiva quel senso di inquietudine che lo faceva empatizzare con altri coetanei lontani migliaia di miglia. Per me, che giovanissimo venivo appunto dalla periferia, sbarcare in una grande città al centro degli avvenimenti in quegli anni, è stato come uno schiaffo a tutte le visioni precostituite del vivere sociale che mi ero immaginato nell’adolescenza.
     Dal punto di vista diacronico molte cose sono successe, talmente tante che la percezione a distanza di anni è di una grande confusione. Questo non nel senso di incertezza nelle idee, semmai di eccesso, di rumore informante. In realtà ognuno sapeva benissimo in cosa credere.
     Una seconda spinta mi è venuta da quelli più giovani di me che erano convinti che avessi vissuto, come tutti i giovani sessantottini, chissà quali esperienze, dall’amore libero alle droghe psichedeliche. Nel romanzo ci sono avventure che un ragazzo medio, di estrazione sociale media, avrebbe forse potuto esperire, ma forse anche no. Pur facendo uno sforzo di memoria documentale, mi pare che le vite eccezionali fossero rare allora come lo sono oggi. Alcuni fatti nel romanzo sono ricordi di ricordi e racconti all’ennesimo grado e tutti gli altri frutto della creatività.
     Il romanzo si snoda grosso modo in tre periodi: quello prima dell’esperienza politica, quello universitario dei protagonisti in piena rivolta studentesca e quello della maturità di adulti.
     Ci sono state diverse stesure e non sono affatto sicuro che non si possa ancora metterci mano. La prima era scritta in un doppio registro linguistico. Da una parte mi ero sforzato di far parlare i personaggi con un linguaggio giovanile che li caratterizzasse in modo univoco, dall’altra di sottolineare l'uso comune del politichese e il sinistrese in particolare, che imperversavano in certi ambienti, come quello che, ad esempio, ha prodotto pagine bellissime  sul Manifesto. Purtroppo mi sono reso conto quasi subito che chiunque avrebbe preferito leggere l’elenco telefonico di New York piuttosto che quel malloppo informe e contorto quanto il gruppo del Laocoonte, senza però averne la stessa armoniosa bellezza.
     In un secondo momento il dattiloscritto è stato visto (letto spero) da Fernanda Pivano, la quale molto gentile come al solito mi ha incoraggiato e consigliato di lavorarci ancora su prima di trovarmi una casa editrice. Solo per averlo promesso a lei ho deciso di tirare fuori dal cassetto questo romanzo. Spero di assolvere così ad un compito cui non potevo sottrarmi e ora finalmente di potermi dedicare ad altra scrittura.




domenica 10 marzo 2019

Self-publishing, scrittori fai da te, auto pubblicati, indipendenti et alii




Questo blog per ora è così poco frequentato da permettermi di scrivere un po’ a random. Me la canto e me la suono insomma. Per forza di cose, visto che anch’io ho deciso di fare questa esperienza, mi trovo a frequentare pagine dove viene trattato l’argomento degli scrittori indie. Ultimamente mi è capitata la risposta arrogante di un giornalista, di quelli invitati come opinionisti a scaldare le sedie della RAI, in quelle trasmissioni che almeno a me fanno rimpiangere il denaro sborsato per il canone obbligatorio. Alla domanda della ragazza che chiedeva come potesse un esordiente avere la certezza di essere letto e valutato onestamente, il giornalista rispondeva con la solita spocchia di chi si sente in posizione one-up, dando anche dell’ignorante alla ragazza per aver scritto in una lingua colloquiale, che le case editrici non leggono perché quello che arriva è tutta robaccia.
Insomma il mestiere di scrivere è destrutturato e non prevede percorsi di apprendistato, la fortuna letteraria è la summa delle tre scimmiette, eppure nuovi scrittori vengono pubblicati ogni giorno. Dunque qual è il criterio della fortuna letteraria? Perché solo alcuni ci riescono e i più non vengono neppure presi in considerazione? Di sicuro l’aspetto economico è importante. Le case editrici sono aziende e devono sottostare alle leggi dell’economia aziendale. Va bene, lo capiamo. Passi pure che per questa valida motivazione in tutte le librerie troveremo Fabrizio Corona (Fabrizio chi?) in copertina. Tuttavia ci viene il dubbio che chi detiene il potere della Cultura (perché decidere che cosa i lettori possono leggere e cosa no è potere), mostri i muscoli e non lasci scampo all’alternativa, alla ricerca, alla sperimentazione (riuscite ad immaginarvelo un giovane Chuck Palahniuk che presenti il suo manoscritto in Italia?). In realtà qualcosa riesce a passare dalle maglie del setaccio, ma solo se chi lo fa si avvale di un portfolio togato, possibilmente una cattedra universitaria.
Per motivi di lavoro in passato mi sono avvicinato al mondo letterario quel tanto da conoscere scrittori e lavoratori dell’ambiente editoriale. Da quel che ho visto per diventare scrittore  ci sono solo tre strade. La prima è quella di essere presentato e raccomandato da un potente, la cui fama sia consolidata da tempo. A questa tipologia appartengono ovviamente anche le amanti e gli amanti e ad una sottocategoria gli amici e gli amici degli amici. Alla seconda categoria appartengono i professori universitari. Fate un rapido controllo e vedrete quanti sono. Ricordo di aver fatto parte di una giuria di lettori e di essermi dovuto sorbire un’ora di lezione di narratologia da un assistente (allora) universitario, il quale citava tutti quei testi che ogni studente di Lettere si è già dovuto sorbire, come se fossero perle di saggezza. Questa categoria è potente e si avvale di una rete di alleanze straordinaria. Alla terza appartengono i giornalisti. Per loro è gioco facile scrivere e trovare agganci per pubblicare. Questa potrebbe essere una delle porte di servizio per pubblicare e non ci sarebbe nulla da eccepire, considerato che per fare il giornalista devi conoscere la lingua italiana, avere una buona cultura di base e superare anche un esame. Quello che però a me lascia un po’ perplesso è che lo stile del giornalismo di oggi diventa sempre più standardizzato e la lingua è così tanto filtrata da far sembrare gli articoli dei giornali tutti uguali o scritti dalla stessa persona. Magari in futuro useremo dei giornalisti robot. Naturalmente esagero. Saprei riconoscere Gianni Riotta anche se non firmasse gli articoli. Comunque sia questo modo di scrivere, pulito e standard finisce per essere il paradigma su cui si basa il giudizio della scrittura di tutti gli altri e questo è purtroppo limitante. Così la lingua dello scrittore medio italiano è garbata, corretta come quella della maestrina dalla penna rossa, ma piatta e votata a far da spalla al contenuto.
Fioriscono siti che insegnano a scrivere. Ti suggeriscono di non mettere avverbi in mente, di non usare troppi che ecc. Mio dio ma io ho messo troppe parentesi! Insomma D’Annunzio non sarebbe mai passato e sì che lui ha scelto un’altra strada possibile: lo scandalo. Oggi per vendere libri si pubblicano sempre più colori sexy. I libri porno vanno di moda, ma vaccinati come siamo temo si leggano più per l’intrattenimento che per la curiosità morbosa e libidinosa di sapere di più sull’argomento.
In definitiva gli scrittori indipendenti esistono perché siamo entrati nel mondo digitale dove tutti possono dire tutto, ma anche dove ci si può democraticamente esprimere, dove se pensi di avere qualcosa da raccontare agli altri lo puoi fare, magari a patto di non aspettarti giudizi di valore.
Toc toc. Is anyone at home? Scusate la citazione. Morivo dalla voglia di usarla da qualche parte. Qualcuno ha qualcosa da dire in proposito? Non c’è da essere per forza polemici. E’ sufficiente portare la propria esperienza. Mi spiace di non poter esprimere la mia con nomi e cognomi, ma non mi sembra di aver scritto nulla che già non si sapesse. Vi aspetto.

giovedì 28 febbraio 2019

Troppa forma fa male

   
     Da quando vado annusando cose letterarie su internet mi trovo spesso di fronte all'espressione un po' spocchiosa: saper scrivere. Certo ci sono delle regole che in linea di massima vanno sapute perché sono la colonna portante della comunicazione verbale scritta, ma fare di queste regole la medaglia al valore da appuntarsi al petto ogni volta che l'Ego lo richiede, mi sembra eccessivo. Anzi mi ricorda l'atteggiamento un po' tipico del liceale classico, il quale dopo aver preso tante batoste per delle innocenti sviste ortografiche, non vede l'ora di beccare qualcuno in castagna su quegli stessi errori per cui lui/lei ha preso quattro nel tema, perché si sa che la violenza genera violenza. 
     Questi sadici che rigenerano frustrazioni adolescenziali si accontentano di un'apostrofe per scatenare una fatwa contro lo scrittore ignorante. Visto ormai il numero di qual'è che si leggono in giro, soprattutto in pubblicazioni autorevoli scientifiche, non dubito che tra poco persino la Crusca interverrà a nobilitare questa forma. Chissà allora i cultori della forma quale faccia faranno! Confesso comunque che anche a me qual'è fa tremare i polsi. Quante ne hanno dovute ingoiare poveretti, non ultima quel petaloso, per cui non il bambino, bensì il politico sarà ricordato nei libri di Storia.
    Tutto questo culto della forma però che noia! Ma non era l'Hauser che diceva che dietro l'horror vacui delle facciate barocche si nascondeva la paura del vuoto? Per fortuna la letteratura ama anche l'esperimento e spesso privilegia il contenuto. Mi ricordo di un’abitante delle favelas di Rio balzata alla notorietà letteraria per avere scritto, quasi analfabeta, un libro che è diventato un best seller. Il fatto è che forma e contenuto sono come il Tempo e lo Spazio. Funzionano in coppia. Per questi ultimi però esiste l'unità fondamentale del cronotopo. Qual è (notare che l'ho scritto come si deve) l'equivalente per la Forma e il Contenuto della narrazione? Un bel dilemma! Riusciremo a dormire questa notte? Io sì e voi?

lunedì 18 febbraio 2019

Vita dura per gli scrittori indie



Eh sì! Dovevo proprio entrarci dentro per rendermi conto di quanto sia difficile la via per chi deve fare tutto da sé. Per questo mi convinco sempre di più che per la pagina stampata sarebbe meglio avvalersi dei professionisti dell'industria libraria. Ad ognuno il suo. Chapeau! Con un ebook sai che fino ad un certo punto puoi aggiornare il testo ed emendarlo da tutte quelle cose che sfuggono ogni volta e che ti vengono in mente quando ormai è fatta, mentre la pagina stampata è per sua natura più definitiva e forse per questo anche più affascinante. Con tutto preferisco leggere sul kindle, ma della querelle carta/vs/ testo elettronico magari ne scriviamo in seguito. 
Come stavo giusto dicendo in giro, sono rimasto colpito dal fatto che per godere di visibilità come indipendenti si  debbano scrivere contenuti sexy e impacchettarli con copertine accattivanti, nudi in cui compaiono perlopiù  tartarughe scintillanti di unguenti. Insomma narrativa uguale glamour.  Mi sono chiesto allora se non ho sbagliato tutto a non farmi fotografare con la mia tartaruga che, parliamoci chiaro, di certo  farebbe morire di invidia quelle delle Galapagos o delle Seychelles e che avrà pure un suo fascino.
A parte scherzi l’impressione generale è che rispetto al sistema tradizionale, almeno per la mia esperienza, quello informatico lasci lo scrittore solo con se stesso, a meno che non abbia competenze anche nel marketing o sia rampante e assatanato di successo da fare di tutto e di più. L’alternativa è tirare fuori il portafoglio, come fa chi si fa pubblicare a pagamento dalle piccole case editrici. Paghi per tutti i servizi, ma ti coccolano dopo tutta la fatica dello scrivere, a cominciare dall’editing. Editors vi sono nel cuore! Anch’io ho fatto un’esperienza del genere in passato, ma quando si tratta di te, ahimé, la musica è alquanto diversa. Intanto perché per te stesso nessuno ti paga e l’unica gratifica è la “soddisfazione” del lavoro in sé o la flattery  auto referenziale. Puoi dire di essere uno scrittore, perché lo scrittore scrive, scrive sempre e ora hai acquistato un titolo. Soldi no, ma soddisfazioni tante.   
Di positivo c’è, mi pare, che tra un manoscritto nel cassetto e uno in un folder digitale forse con il secondo ti senti di aver almeno lanciato il sasso. Se è per questo io ho poi anche tirato indietro la mano con la storia dello pseudonimo, ma anche questo discorso apre un’altra porta.
Mi piacerebbe conoscere le difficoltà di chi ha sperimentato il mezzo, magari provenendo da esperienze diverse. Scrivete i vostri commenti. Sentiamoci e ricordate che siamo tutti nella stessa barca proprio come quelli del film La vita di Pi!
tulhaivistoeasyrider@gmail.com


venerdì 8 febbraio 2019

Sinossi






Il titolo si spiega nel culto del protagonista per il film che rappresenta la voglia di libertà in un mondo oppresso dai condizionamenti e dai pregiudizi.
Un gruppo di giovani cresce e diventa adulto tra gli anni sessanta e la fine del secolo scorso.
Il racconto si sviluppa in parte come romanzo di formazione e in parte come romanzo storico, poiché i personaggi si muovono sulla superficie della Storia in modo verisimile.
Riccardo, Ric, è l'io narrante che tesse i rapporti con gli altri personaggi. La sua queste è la voglia di cambiamento e in questa ricerca non è solo. Il pericolo è il rischio di perdersi tra i problemi della vita e il proprio mondo interiore, mentre ciò che resta delle esperienze, anche se non rivoluzionario, può aprire la strada al cambiamento sociale a cominciare dal recupero dell'individuo.



giovedì 7 febbraio 2019

Tu l'hai visto Easy Rider - Estratto - Capitolo quarto


Di solito le anticipazioni di un romanzo permettono di leggere più o meno il primo capitolo. Per quale motivo? Forse per il pregiudizio che letto il primo tutto il resto sarà uguale. Un po' come a dire che tutto l'anno seguirà l'andamento dei primi dodici giorni di Gennaio. 
Scusate se sono un po' bastian contrario, ma io ho simpatia per altre parti del libro e quindi posto questo estratto, che comunque non è per niente l'immagine di tutto il resto.
Mi viene in mente To the lighthouse  di Virginia Woolf. La prima parte del romanzo potrebbe essere anche faticosa e un po' monotona, ma poi, dopo che hai conosciuto bene la protagonista,  ecco  la rivelazione che ti scuote dalle fondamenta e ti fa divorare tutte le pagine che seguono. Almeno per me è stato così.  Naturalmente questo romanzo non si avvicina nemmeno lontanamente alla lista della spesa della grande Virginia. Non aspettatevi troppo!
 Il romanzo sarà presto pubblicato in forma di ebook. Non penso che vedrà il cartaceo a meno che non si creino le condizioni per riconsiderare tale scelta. Dipenderà dall'accoglienza del romanzo, credo. 
Sarò anche rinunciatario, ma dubito che questo possa succedere per un libro auto pubblicato con uno pseudonimo. Ah, già, perché sì, Giordano Vezzani è un alias. Una scelta che ha le sue motivazioni. 
Per chi avrà conosciuto il libro a partire da questo blob ovviamente fornirò  presto  il link dove scaricare l'intero testo. Sarò felice di ricevere commenti e di scambiare opinioni e mi pare che questo sia anche il senso di una scelta che privilegi l'uso del web. 


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Capitolo IV


Venezia mi accoglie a Santa Lucia, togliendomi il fiato come sempre, perché con perfida ironia i miasmi dei canali si amalgamano alle percezioni più stimolanti, e sfiori il sublime ti piaccia o no.
L’ostello è fuori mano, ti pareva, ma la Giudecca, le Zitelle, si rivelano poi un assurdo privilegio per giovani vagabondi, posto com’è tra l’isola di San Giorgio, un tramonto di cartapesta, e Piazza San Marco a due passi di laguna.
Non mi capacito come non lo abbiano messo tra le fabbriche di Porto Marghera questo ostello qui e al suo posto non ci sia un megagalattico hotel cinque stelle. Ma poi è chiaro. Venezia di posti così ne ha da buttare a pacchi e mi sta proprio bene che questo palazzotto, rosso scuro di cotto toscano, con gli smerli gradinati tipo case di Amsterdam, sia tutto nostro.
Comunque a farci sentire a nostro agio c’è l’interno, al solito in caserma-style, con suppellettili scontate e famigliari come il loro classico galera-design. È come se il sistema ti offrisse vitto e alloggio a modico prezzo e nello stesso tempo ti mettesse in guardia dalla vita di merda che stai facendo. Almeno se le camerate maschi-femmine fossero promiscue che bel casino che se ne potrebbe fare.
Incontro Annie. Grandi abbracci e l’unico saluto delle lettere ciceroniane che ricordo, vale pulcherrima Annie. A una media di due etti al giorno la cucina italiana l’ha fatta diventare, come dice lei, una “chicana-californiensis muy gordita” e io le replico “just a little chiattona”, tanto per far pisciare addosso dalle risate il nostro compagno italiano di breakfast, l’unico pasto decente da consumare in ostello.
Le spalline di sangallo della canottiera di lino e trine si adattano così bene alle due potenti braccia da guardia del corpo, quanto una cuffietta di merletti intorno al viso di Spadolini già in età parlamentare. Colpa di Forattini.
È un piacere vedere che la sua carica di vitalità è incrementata di pari passo colla ciccia e che ha adottato una nuova pettinatura sostenuta da una serie di forconi, messi qua e là casualmente tra un insieme pirotecnico di cernecchi slegati e indomabili.
Continua a inforchettare per tutto il tempo che siamo insieme e la immortalo nella posa, di affiché fin de siecle, della donna che si pettina con le braccia sollevate in un’atlantica impresa, mentre in mano tiene una forcina biascicata nel tentativo di parlare. E ancora una volta mi fa macinare calli, callette, fondachi, ponti, fondamenta, in uno zigzagare senza sosta dove tutto è esclamativo, fotografabile, wonderful. La scatenata californiana morde il freno solo quando sente il morso della fame e allora è capace di fiutare dove si mangia più cheap, con quattro soldi, in tutta la laguna.
Ho ricordato una rosticceria tipo snack bar, con panchette sopraelevate per cosce da cestisti e una stretta losanga di legno lungo il muro dove puoi appoggiare il piatto, in castigo. Durante una mia precedente visita avevo intuito che per dei turisti morti di fame non doveva essere male e così avevo preso a riferimento il Rialto, la statua di Goldoni e un paio di negozietti di indianerie, cineserie veneziane. Annie pretende che la aiuti a scegliere, così le spiego ogni piatto, neanche fossi uno chef internazionale e poi come si dice marinato in inglese?
La minaccio di morte violenta se non mi segue subito in piazza San Marco e se non si stravacca da qualche parte innocua e mansueta. Ma anche qui poi, è sì abbastanza innocua, perché non osa farmi spostare le chiappe da un bel pezzo di marmo pario, ma non più mansueta di una manzetta assediata dai tafani.
Ora sono i piccioni, perché non si può tornare in America senza averli ingozzati - alla faccia dei monumenti che quelli scacazzano ogni giorno - ora sono le cartoline tonde multivision che come qua non ce ne sono da nessuna parte, ora il bisogno altruistico e petulante di correre in soccorso di visi yankee apparentemente in difficoltà e indecisi da dove cominciare, ora a pianificare il migliore sightseen di Venezia in sole dieci ore per due giapponesi occhialuti, sorridenti e deferenti. Le dico che ora capisco perché il grande cinema è nato a Hollywood, lì c’era tanta materia prima ed è meglio stare a guardare lei che i fratelli Max. “O.K. me lo sono voluto un bel dito all’insù, andrò a fan culo, va bene, ma siediti per favore!”
All’interno dell’ostello non sono gradite le discussioni di nessun tipo, specie se politiche. Dobbiamo essere l’immagine della gioventù bella, sana, atletica, usare il dentifricio tre volte al giorno sulle note di Barbara Ann e lasciare il cervello all’entrata: il guardacervelli ve lo restituirà alla partenza, ma attenzione a conservare lo scontrino. I discorsi hanno perciò il loro teatro naturale davanti al fondale di San Marco con i piedi ciondoloni sull’acqua brulicante di gamberetti in piena mutazione genetica. Per chi non sopporta gli effluvi salmastro-fecali c’è il muro e il selciato.
Ad Annie sembra stupido sprecare una serata veneziana alle Zitelle, ma le dico che l’isola si chiama così perché ci vivevano due sorelle che sono rimaste zitelle, spinsters, perché avevano la pretesa di portare i loro lovers tutto il giorno in giro per Venezia e che come fa lei a essere Wertmuller, Jane e Cita tutto in una persona. Mi dà uno spintone cameratesco, uso semper fidelis, arruolati in marina e girerai il mondo, che mi fa piombare tra le ginocchia di alcune zazzere nostrane, così dico: “Scusate la mia ragazza è una campionessa californiana di catch e io sono il suo allenatore”, ma il commento più carino è “fatti fottere”. Incrocio le gambe e faccio un segno a Annie e siccome siamo in pieno spreco di neuroni le traduco come posso quello che dicono.
La zazzera tipo beatlemania, acciambellato alla mia sinistra, ha un tic nervoso agli occhi e ogni volta che gli viene dice un “cazzo” o viceversa, sbarrando lo sguardo azzurro pervinca nella luce portuale delle lampade al sodio.
“I nostri genitori, gli adulti, quelli che contano, i potenti, cazzo, non hanno fiducia in noi o più probabilmente hanno paura della nostra forza. Per ora è ancora potenziale, ma presto le nostre idee saranno le idee di tutti i giovani e quando i giovani saranno cresciuti, cazzo, voglio vedere se le cose non cambieranno, cazzo, per questo è importante diffondere le idee e diventare ogni giorno sempre più numerosi, cazzo. Sono sei mesi che vado in giro e sono stato anche all’estero e le cose stanno davvero cambiando dappertutto. È che devono cambiare, ché è giusto così, ché la generazione di prima ci stava portando verso la terza guerra mondiale, al disastro atomico, ma che i giovani di tutto il mondo hanno capito, cazzo, e non lo lasceranno fare!”
“Ma fammi capire,” interviene un tipo scamosciato chiaro a frange da pellirosse, “fino adesso avete fatto tabula rasa di tutto. Ma non si può fare così. Mio padre ha fatto la Resistenza, era partigiano, ora è comunista. Io lo ammiro per quello in cui ha creduto, giustifico quello che ha fatto. Non c’era alternativa. Cosa avremmo fatto noi a quei tempi, i sit-in pacifisti davanti a palazzo Venezia? La Resistenza contro gli errori di allora è stata covata per anni e poi si è attivata in guerra. E’ giusto così! Sono passati dal rifiuto delle idee imposte dal regime, alle armi perché non c’era altro da fare, la non violenza coi tedeschi in casa sarebbe stata solo auto annientamento, magari su un piatto d’argento.”
“Va beh, comunque tuo padre ha il torto di essersi fermato alla liberazione e crede che un sistema repressivo come quello russo può risolvere tutto, può portare al cambiamento e può fare sparire qualche ingiustizia. Ma vale la pena un’alternativa così?”
“Intanto si comporta come tutti, paga le rate della seicentocinquanta e risparmia per la casa dei suoi sogni per sé e la famiglia. In testa c’ha pure la fabbrichetta e quando ci arriverà sarà vecchio e morirà di cancro per la merda che ha respirato, oppure esproprieranno il suo terreno per metterci le nuove fabbrichette.”
 “Ha ha! E poi se andrà bene le industrie le faranno un po’ più in là e scaricheranno le loro merde su di noi che vivremo tappati in casa con le maschere antigas e fuori sarà tutto morto, grigio come il paesaggio di Hiroshima e le nostre galline sembreranno extraterrestri sopravvissuti a un campo di sterminio intergalattico.”
“Sai cosa ti dico,” intervengo a rinforzo dell’esploratore del basso Po, “che quelli come tuo padre sono entrati nella storia perché l’hanno fatta, che hanno agito ed è così che dobbiamo fare noi, agire, non basta dire quello che non ci va, quello che ci rifiutiamo di fare, basta di definirci solo in negativo, bisogna anche entrare nel sistema per scardinarlo.”
“Non spalare merda! Tu ragioni come quelli che dopo essere stati tanto dentro al sistema, cominciano anche a starci bene, veh!”
“Un momento dai, perché no? Perché non dovremmo fondare un nostro partito, andare a fare casino in parlamento, alla televisione, fondare giornali a larga tiratura? Perché i nostri ciclostilati rischiano di rimanere bollettini d’informazione parrocchiale, sia ben chiaro! Perché non dovremmo desiderare il potere per poi fare i cazzi nostri? Se pensi che il pericolo è che poi una volta che ci sei dentro ci sei dentro, allora vuol dire che sono le persone che hanno fatto il movimento ad essere delle teste di cazzo e non il movimento per se stesso. A non fare niente si lascia campo libero agli altri e allora saranno i loro figli a fare la storia di domani e non noi.”
Annie vuole capirci qualcosa e preme per un resoconto e, mentre epitomo tutto, sento che il mio intervento è stato apprezzato con dei “chi cazzo l’ha chiamato questo qui” e così non ci rimane che fare una superveloce puntata a San Marco, tanto la corsa è praticamente regalata, a slurpare un torreggiante semifreddo. Con i gomiti sulla scia di spuma maleodorante respiro la sinestetica luce lunare, guardo benevolo Annie e le dico in italiano: “Anche oggi i tuoi due etti non te li leva nessuno!”

L’ora del rientro si avvicina, lo sento istintivamente, d’altra parte “sei un animale” è il complimento consueto di Manu alla mia persona. C’è anche da dire che in fatto di scadenze sono più inquadrato di una scatola da scarpe e voglio cominciare a pensare all’università.
 Ho riallacciato i contatti via cavo col mondo e mi sono ammosciato quando è arrivato l’espresso completo di Manu che mi ha dato una svirgola che levati e inspiegabilmente mi ha fatto sentire che il mio posto è altrove.
Forse comincio a percepire il disagio. L’avventura rischia di diventare una vacanza, l’esperienza il godimento del vivere alla giornata. L’edonistico tirare a campà mi disgusta. La centrale operativa, il mio posto organizzativo di comando è a casa. Là posso riprendere la gratifica di tessitore dei fatti altrui e implicarvi i miei. Il mio tempo bergsoniano si è modificato a causa delle emozioni e degli impulsi serrati che ho ricevuto lungo il viaggio. E’ come se lo stoccaggio dei pensieri, la mia coscienza, viaggiasse a una velocità einsteniana tanto grande che il peso delle preoccupazioni si è annullato, lasciandomi sospeso in una realtà in vitro, tanto affascinante quanto sperimentale, dove può accadere di tutto. E’ stato invece necessario uno scossone perché, pur sapendo che là tutto si stava svolgendo con la solita staticità paralizzante, ho temuto di ritornare in una realtà che mi rifiuti, perché andata troppo in fretta senza di me, messo da parte, dimenticato. Con la testa, almeno, sto rincasando.
La lettera di Manuel presso l’ostello di Venezia è stata già recapitata da una settimana. E’scritta su fogli di blocco notes con la spirale di metallo plasticato e non si è neppure dato pena di strappare via le frange di carta che si ammassano da un lato, conferendo volume alla busta. Non ricordo di avere mai ricevuto posta da lui, se non forse delle banalissime cartoline, e sono quindi frastornato da quell’involto di carta tanto copioso quanto, al contrario, Manu era famoso per consegnare in classe saggi striminziti e inadeguati.
“Ciao lendinoso, ti scrivo perché te l’ho promesso, ma sono sicuro che tu non la leggerai mai la mia lettera, perché non riesco a vederti a Venezia tutto solo. Secondo me non appena ci siamo separati te hai preso il treno e te ne sei tornato dalla tua mamma e, se ci sei arrivato, come hai fatto senza di me? Ce lo vedi Dante senza Virgilio o Don Chisciotte senza Sancho Panza? Oddio che idea cretina, mi sono dato una zappata sui coglioni da solo. Essermi paragonato a Sancho Panza! Ma ormai l’ho scritto, amen.[…]”
La lettera continua in un tono faceto e burlesco e lo stile ne attribuisce sicuramente la paternità a quel figlio di puttana. Scorrendo, però, mi accorgo che il carnevale prepara la quaresima e che il calice è amaro, perché la fine di un grande legame è un po’ la fine di un grande amore.
“Non so come dirtelo,” scrive entrando bruscamente nel merito, “ma devo farlo perché se non lo dico a te, non so proprio a chi dirlo. Ricordi che a Perugia ogni tanto telefonavo? Non telefonavo a casa come pensavi, telefonavo a Leo. Fatti venire in mente quando sei andato a comprare i panini alla stazione e noi siamo rimasti soli. È successo che Leo mi ha convinto a rimanere a Roma e che un suo amico mi ospitava. Ma ormai ero in ballo con te e dovevo ballare. Solo che poi ho capito che dovevo tornare indietro. Certe cose vanno così! Questo è il delitto, ma il movente qual è? Mi sembra di sentirti. Un movente semplice per chi c’è dentro fino al collo come me, ma potrebbe essere difficile, spero non impossibile da capire, per chi ne è fuori. Leo ha detto subito che gli piacevo e che avrebbe voluto fare l’amore con me. Mi spiace che tu lo sappia così, per lettera, ma io sono così, anche se forse a te sembrerà una doccia fredda. Il tuo migliore amico un finocchio! Rassegnati, è così. Finalmente posso liberarmi di una cappa di piombo. Figurati per uno che si aspetta una cosa così da una vita! Il fatto è che anche a me lui è piaciuto subito un casino e anche se non l’avevo mai fatto ci volevo stare. La cosa ancora peggiore è che poi mi è anche piaciuto e ho capito che non potevo prendermi in giro e raccontare balle agli altri. Se ogni simile cerca il suo simile Leo e io eravamo della stessa razza. Ora aspettiamo. Lui finisce il militare e intanto sto con alcuni suoi amici. Ti mando l’indirizzo e il telefono. Fatti vivo per favore. Abbiamo dei progetti, ma ho un sacco di paura per via dei miei e conto nel tuo aiuto per trovare una buona scusa per andarmene da casa.”
La lettera si spenge con il ricorso al solito tono simpatico e mattacchione, un paio di notabene e un post scriptum senza senso. Sono rimasto come un imbecille a ragionare su quel “fatti vivo per favore”. Quando mai Manu mi ha detto per favore? Farà parte del suo patrimonio di lingua scritta, registro confidenzial-epistolare, oppure dietro quattro parole c’è una bottiglia di vetro lanciata in sordina al migliore amico con dentro scritto “non ci capisco più un tubo, sono troppo incasinato, la mia è una richiesta di aiuto”?
Questo succede quando tutti ti investono della parte del fratello maggiore solido e incrollabile. Decido di fare una corsa a Roma per riprendere contatto, attraverso Manu, col percorso principale della mia vita, scartando per ora quelli alternativi.
Saluto Annie in mistilingue tra baci e abbracci camerateschi, scambi d’indirizzi, promesse, assicurazioni sul nostro patto di amicizia, o qui o là, ci si scrive e prima o poi, stai tranquilla che la west coast me la sogno anche di notte e attacco, con pessima imitazione di Mama Cass, che mi piace un frego, Dedicated to one I love. Sventolo dal finestrino il cap da marinaio USA che Annie mi ha regalato per forza in un ultimo impeto di generosità. Il berretto è un pezzo autentico con il bordo di cotone impunturato spesso mezzo centimetro e alto un palmo, mi si ferma sulle orecchie e tirato giù mi fa l’aria da scemo integrale. Dentro ci doveva stare il cervello svaporato di un mister muscle tutt’acciaio e la sommità ispida del suo calvario. Mi commuovo così tanto che le darei tutto, anche le mutande. Le metto in mano il distintivo degli sparvieri che è rimasto spillato su una tasca dello zaino da tempo immemorabile. Sventolo e ringrazio perché si fa un regalo così solo a un vero amico. Non si butta via un po’ di sé così, per niente. Mi pento di non averle dato il braccialetto di Maria quando sono già a Mestre.
A Milano dovrò aspettare qualche ora per prendere il rapido. Ma Milano era nei programmi, così almeno potrò dire di esserci stato. Cambio due volte scompartimento perché a me la gente che non parla mi sta sul cazzo. La terza volta mi va bene perché trovo un ragazzetto che per loquacità è più pirla di me ed è dei nostri, si vede anche troppo chiaramente dai jeans macerati e dal maglione di cotone crudo tagliato a barchetta, senza nient’altro addosso che un paio di flip-flop di gomma multistrato colorato con la vu infradito blu elettrico. La lunghezza dei capelli lascia adito a due sole ipotesi: primo, è entrato nelle fila del movimento vattelappesca da poco oppure, secondo, è un coscritto con un forte spirito di individualità e di autodeterminazione tipo i capelli li porto come caspita mi pare. Intavolo una lunga chiacchierata su argomenti vari.
“Hai visto Easy Rider?”
Anche a lui Easy Rider è sembrato un capolavoro e ricorda anche alcuni pezzi del soundtrack e improvvisa, colla mimica della chitarra, un Jimmy Hendrix show. Mi dice che quella scena psichedelica quando si drogano è proprio forte, che è come se riescano a comunicare tra di loro in modo nuovo e che si vede che sono uniti dalla stessa emozione, ma che a lui una roba così non è mai capitata. No comment dalla mia parte.
Metti due come noi insieme ed è un’orgia di bla-bla su violenza, guerra nucleare, ipocrisia dei benpensanti borghesi, società repressiva, ingiustizie della democrazia cristiana, pacifismo, civiltà dei consumi, aspetti superficiali della provocazione antiborghese, morale individuale come principio fondamentale di ogni consorzio umano, spersonalizzazione a causa dell’automazione e meccanizzazione, possesso del falso benessere tramite il possesso di oggetti, con la conseguenza di una vita ansiosa e di innaturali ritmi accelerati di vita, barriere che dividono sempre più coloro che credono nello status symbol e coloro che cercano la genuinità…
Il grande capannone-hangar della capitale dell’industria ci inghiotte nella falsa luce anodina. Se vado con lui per un po’ posso stare con degli amici in una baraonda di casa. Gli spiego che non posso, ma che ho del tempo da perdere e che farei volentieri un giro e che vedrei volentieri che fine ha fatto la tendopoli. Mi ci porta eccome se voglio, ma che da quando Barbonia City, come la chiamano, è stata distrutta può essere anche rischioso per quelli come noi andare da quelle parti.
“Come minimo ti fermano se vedono che c’hai i connotati da schedato e, a parte i capelli, ce l’hai presente se vedono lo zaino e i sacchi a pelo?”
 “Ma dov’è finita tutta la tolleranza dei milanesi,” faccio io, “avete accolto a braccia aperte tutto il meridione, che qui il problema dell’integrazione quasi non si è posto e poi per quattro ragazzi, che vogliono vivere come gli pare si mobilita tutta la città.”
“Eh già, ma i terroni caro servono come carne da macello alle industrie e fanno troppo comodo, mentre quelli che non lavorano qui, nel tempio del dio lavoraeproduci, sono una minaccia perché  possono anche corrompere tutti gli altri e allora dove sarebbero più quelli da sfruttare! L’hai capita la musica?”
“Fanno vedere di essere accoglienti, ma in realtà hanno il loro tornaconto. L’umanità è malata di ipocrisia. Nessuno fa niente senza tornaconto.”
Ci siamo. Qualche sguardo da “se ti muovi ti fulmino”, ma niente di più. Non c’è neppure gente da quelle parti e dire che ho letto che era un formicaio. Vedo un’area recintata, grande e polverosa. Dove era il prato? Forse qua e là sono rimasti dei reperti, ma poca roba e complessivamente l’impressione è di una delle tante aree in attesa di essere edificate. Saluto l’amico e rimango deluso di essere arrivato tardi, ma tanto i miei programmi erano altri.

Ho i reni a pezzi e piscio cinabro perché il treno non lo sopporto, penso agli areostati, ai dirigibili come a una grande occasione mancata per l’ Umanità, che non mi farebbero pisciare sangue e pestato gli occhi a quel modo.

“Te lo passo subito ciccino,” mi risponde la voce frocio-romanesca. Al balbettio dell’incipit segue la fiumana di parole intercalate da “che bestia sei, sei bestiale lo sapevo.” Manu mi dà le indicazioni poi si corregge che preferisce venire lui a prendermi e poi ancora mi dice come fare ad andare in un certo posto a metà strada che è la cosa migliore.
Mi sento strano a trovarmi di nuovo qui, sono ritornato sui miei passi lungo un’ellissi. Temo, per una esasperante condanna, un perfido destino da ebreo errante, di ritrovarmi di lì a poco a Spoleto per ricominciare tutto daccapo. La mia capacità nevrotica di creare situazioni immaginarie hanno forse un effetto catartico, preparatorio sulla realtà, come certi esercizi di respirazione yoga.
Manu mi viene incontro festante con la consueta cera da lasciami-perdere provocatoria, ma non mi sfugge un certo disagio impacciato, l’aria colpevole di quello che sa già di passarla liscia. Prende la rincorsa e con una sforbiciata mi attanaglia i fianchi e mi abbraccia con tutta l’irruenza della quale è capace. Subisco l’attacco a sorpresa senza poter contraccambiare, dal momento che è stata già un’impresa l’essere rimasto in piedi, invece di riversarmi sull’asfalto dell’urbe, cavalcato supino da quella specie di umano cucciolone.
A dire il vero mi preoccupo degli occhi che d’intorno ci fissano per tutta la durata della performance, attirati dai frizzi e lazzi dello scatenato Manuel. Se non fossimo in pieno centro saprei io come fare a farti star buono, gli ricordo, sganasciando la mano minacciosa nell’aria. Mi costa una poderosa manata sulla spalla che mi scombussola lo zaino e l’equilibrio, fino a che trovo l’attimo per dirgli “Eccomi qua.”
Lo seguo in un appartamento con molte porte interne che si affacciano su un corridoio lungo a esse e mi sorprendo dell’altezza d’altri tempi dei soffitti. Le stanze sono ricavate da un enorme salone perché le diagonali del soffitto a crociera sono rintracciabili, assieme al grado di curvatura, nella successione delle pareti. Avverto dal silenzio pesante che non c’è nessuno in casa e Manu me lo conferma e mi fa entrare in una stanza incasinata.
“Aspetta non me lo dire,” gli faccio, “che provo a indovinare. E’ dove dormi tu!” e gli mostro una baraonda di indumenti impilati sullo schienale di una sedia. “Ecco il tuo guardaroba!”
 Fa sparire frettolosamente la roba sporca dal pavimento, ma gli sfugge il paio di mutande che raccolgo con il mignolo e che gli porgo.
“Sono le tue non ho dubbi, riconosco la tonalità del tuo marchese.” Sull’ultima vocale mi dà una manata tra le costole e me le strappa di mano prendendosela con la bestia immonda che non sono altro.
Ho voglia di sapere e non lo nascondo. Ci sediamo dove capita. Mi aspetto delle spiegazioni, lo incalzo e poi lascio che il silenzio faccia il resto, perché lo sproni a riempire ogni iato imbarazzante di tempo. Manu finisce per farmi il resoconto di una love-story da lettera al direttore di qualche rivista al femminile, con tanto di colpo di fulmine e l’angoscia di quanto potrà durare. Lo tempesto di domande su come ha intenzione di mantenersi, come mi dovrò comportare al ritorno, su quali sono quei famosi piani per il domani, se fanno l’amore. Voglio sapere ogni cosa a costo di fare la parte del maniaco.
Per ora questi amici non pretendono niente fino a che non troverà un lavoro e poi si arrangerà. È già mezzo in parola con uno di una pizzeria. Quello di portare i piatti è una cosa che san fare tutti. In quanto ai suoi è sufficiente confermare quello che già sanno, cioè ho da dir loro che lui non tornerà e che intende frequentare l’università. Si iscriverà a medicina e, per me, è una vera sorpresa.
“Intanto finché non ti laurei io con te non ci gioco ai dottori!” gli dico.
Lui e Leo hanno deciso di andare a vivere insieme e per un colpo di culo incredibile, Manu ha perso la testa proprio per uno che abita dietro l’angolo della facoltà di medicina. È naturale che per frequentare debba risiedere sul posto. Così tutto si sistema con i suoi. La cosa mi fa giubilare e fa rientrare in parte le paure di perdere l’amico perché anch’io, gli dico, cercherò una sistemazione alla casa dello studente o da qualche altra parte e mi iscriverò a filosofia, altro che scienze naturali, come pensa lui.
Questa sua impennata amorosa non mi ha sconvolto come credeva.
“Con la massima estensione dei tuoi tre centimetri di pene ci puoi fare quello che vuoi, anche andarlo a inforchettare in tutti gli scoli di Roma.” lo rassicuro ed esplodo in una risata irrefrenabile non appena lo vedo venire verso di me per picchiarmi. Gli do la soddisfazione di prenderle per punizione.
“Va be, scusa, ho una lingua di fogna. Sono geloso. Temevo di perdere la tua amicizia ora che ti sei maritato.”
 “Ci sono cose su cui si può scherzare e altre no, in questo settore devi farti le ossa.” Mi punta l’indice semiserio. O cambio io o si abitua lui. Sarà lui a farci l’abitudine.
Gli domando lo stesso se la sua relazione con Leo potrà ostacolare in qualche modo la nostra amicizia.
“Ma non eravate amici tu e Leo?” mi domanda, “e poi perché non potresti addirittura venire a stare con noi, dai!”
 “Eh no Manu, questo non sarà! Tra moglie e marito…!” Un sorriso gli frana agli angoli della maschera compunta.
Non è facile cavargli di bocca tutto il tormento di decisioni prese in tempi rapidissimi in mezzo a una tempesta di sentimenti ed emozioni, ma tra noi non ce ne è bisogno. Se siamo vicini ci colleghiamo subito.
Gli amici di Leo sono travestiti. Uno è praticamente una donna. Per campare battono il
marciapiede. Certo che da qualche parte devono portarli i clienti, ma solo di notte e siccome io di
notte dormo, non mi accorgo di niente.
  “Ehi di un po’, non è che alla fine ti ritrovo con il rossetto sbaffato sino al mento e il
buco del culo che fa le uova d’oro per qualche stronzo?” dico in falsetto incazzato. Manu si tiene la
fronte in mano.
 “Che ti viene in mente, ma mi vedi come la sedotta e abbandonata?”
 “Beh, nel ventre di Roma una mammoletta come te potrebbe cadere anche più in basso,”  gli rispondo prontamente, “ad ogni modo perché non mi dici se Leo t’incula e la fai finita?”
“Ric, stammi bene a sentire, io sono fuori sul serio e qualunque cosa Leo mi chiedesse di
fare la farei perché sono sicuro che mi piacerebbe, hai capito?”
“Insomma io mi aspetto un po’ di pecoreccio del tipo sono stato a camminare tre giorni a
 gambe larghe dal male come una vergine cinquantenne deflorata da un marocchino superdotato, e
Leo è tanto superdotato, e tu invece fai proprio sul serio in modo decisamente preoccupante. E va bene come vuoi tu!”
Gli racconto di Leo e delle nostre porcheriole di adolescenti. Mi sganascio con una sensibilità da cavatore di Carrara, ma quasi subito Manu riprende il discorso.
“Guarda che Leo è meraviglioso, mi fa star male a volte, tanto si preoccupa che io abbia sempre la mia parte. Tu non puoi capire.”
Sollecito e faccio domande e almeno capisco che il loro cocktail d’amore è fatto di sodoma e gomorra, le solite cose, forse di molta fantasia e di tanto altro che verifico negli occhi di Manu, nelle contrazioni nervose delle sue mani giunte.
Manu continua a parlare e parlare sciogliendosi sempre più. Mi racconta sorridendo che, una sera che lo accompagnava in caserma, ne avevano così voglia che si sono infilati in un portone e l’hanno fatto semisdraiati su una moto, venendo tutti e due a tempo di record dalla paura di essere scoperti e poi sono andati a mangiare una pizza. Una delle fisse di Leo era farlo stando all’inpiedi, di preferenza negli angoli bui del lungotevere o nei gabinetti del Vaticano, perché è più maudit farlo in paradiso e più sordido e sregolato.
“Godiamo e pecchiamo, godiamo e preghiamo!”
Dopo essere andato ad aprire Manu mi ha chiamato per farmi conoscere ‘le ragazze’. Ho girato di novanta gradi l’angolo della porta e mi sono aspettato un impasto tra Le notti di Cabiria, Bionda atomica, I vitelloni, Mondo cane di notte, La dolce vita, Ragazzi di vita. Invece le tre Coccinelle sono due donne abbastanza attendibili, più una terza venuta proprio male, disgraziata, magari chissà, proprio quella che il ciondolo l’aveva lasciato in formalina a Casablanca. Mi presento e mi sento dire: “Sei quel ciccino che ha telefonato, vero?” Seguono complimenti e vezzeggiativi, uso “che bell’amichetto che hai Manu, se vuoi te lo faccio per niente” e l’orrore in maschera, passandomi davanti per ultimo, si sente in dovere di dire la sua. “Io a quelli carini come te glielo succhio come un vampiro”
“Brava, così mi tiri via tutto lo scolo!” le sussurro a denti stretti, perché te l’ultima parola con me te la sogni.
Ma poi facciamo amicizia, le tre teste cotonate e io, e scopro che sono divertenti da matti, perché si punzecchiano e si danno battutacce l’uno con l’altro e auto ironizzano per la gioia di tutti i culattoni del globo, specialmente la racchiona, mandibola formato neanderthal-man, da sing-sing con amore. Il ghiaccio tra noi si rompe quando li investo con la cosa più scema che mi frulla per la testa da un quarto d’ora.
“La sapete la differenza che c’è tra voi e le regine?”
“No ciccino diccelo!”
“Che loro sono teste coronate con i marchesi e voi teste cotonate senza il marchese!” Non so perché a me le cazzate vengono d’acchito, così!
Quello più fine e pallido etereo ha l’accento marcatamente toscano e questo rende le sue battute irresistibili. Mi scappa da dire a Manu, “ma chi l’ha cagato quel fenomeno lì” e lui che ha intercettato mi risponde senza alterare il tono di voce da finocchio cantilenante: “La budella di tu mà!” Poi con striduli urletti sospesi alle vocali accentate fa un po’ di teatro vernacolare in proprio.
“Sai che ti fa un giardiniere a mezzogiorno? Un albero ‘n culo e le foglie d’intorno!”  Sgrana gli occhi a pochi centimetri dal mio viso che lo guardo divertito e prevedo la boutade.
 “Te un te la immagini qui Clementina. C’ha le palle mosce che le sciondolano tra le gambe come al bacco del Bargello. Te tu ti domanderai e come fai a sapello? deh, un l’hai visto che c’ha il culo maolato!”
Fanno salotto-cabaret per pochi intimi e si raccontano momenti della loro professione con la stessa ocaggine delle pubblicità televisive che parlano della spesa e del bucato.
“Guarda quello lì se ritorna si prende un calcio alle palle, viene da me che gli puzza l’alito di vino che non ci si resiste e tutte le volte gli dico “la prossima volta prima scopa e poi bevi.”
“Sì quello! Stai fresca, è pieno di candida e pretende che gli faccio un pompino prima di metterlo in culo. Sai che gli ho detto? A quel prezzo fatti una sega da te e già che ci sei fanne una anche a me!”
Quando cominciano a sciorinare a gara tutti i casi degni di nota per anormalità, rarità e malattie, faccio segno con la testa a Manu di trovare il modo di portarmi fuori di lì, dopotutto certe patologie è bene che interessino a lui futuro medico, ma a me ormai che me ne frega!»
Andiamo per pizza al taglio, ma rientriamo prestissimo perché sono al collasso e non riesco a guardarmi allo specchio. Manu comunque ha una premura quasi materna e ci manca solo che mi rimbocchi le lenzuola col bacio della buonanotte. Dormo a piombo un paio d’ore poi sussulto col batticuore per i rumori improvvisi nel corridoio e risate ed esclamazioni pretenziose. Mi appisolo quando i rumori si fanno di nuovo crescenti e fastidiosi, un vero supplizio di Tantalo, paragonabile solo a una notte in piedi nel corridoio del Zurigo-Milano, con le ginocchia che danno l’allarme non appena ti addormenti sino al prossimo colpo di sonno.
Al mattino la prima cosa che dico a Manuel è che le sue Peter Sisters, le tre grazie dal culetto d’oro, producono più loro che le catene di montaggio di Mirafiori e che sicuramente a un ritmo così il loro capitale si decuplicherà in pochi mesi, sempre che trovino primo: il modo di rifarsi la plastica allo sfintere ogni sei giorni per usura e secondo: conveniente il costo di ammortamento.
Prego Manu di portarmi in giro per la città senza una meta precisa, così a caso, per sbirciare un po’ di colore locale. Roma mi piace proprio. Mi dà l’impressione di una capitale provinciale e cosmopolita al medesimo tempo, ingorgata da traffico rumoroso, garrulo, neolatino. La città che conoscevo era poca cosa e si sovrapponeva alla Roma fittizia dei ricordi scolastici, delle suggestioni letterarie, culturali in genere. In fondo rimaneva ancora qualcosa della città visitata da Goethe, qualche scorcio verso l’Appia Antica, qualche capriccio, qualche rudere conservato tra il verde qua e là, ma senza dubbio c’era ancora intatta la capitale post risorgimentale, fissata dai cerulei occhi dello Sperelli. Inutile tentare di ignorare le linee neoclassiche da nosocomio, con tendenza al dormitorio pubblico, di tanti edifici del ventennio, ormai incancellabili. Pensare che ormai ce li dobbiamo tenere per sempre è come un jingle nella testa. Intanto ripasso Moravia inquadrando i Parioli.
Mi faccio promettere da Manu che se fossi ritornato presto mi avrebbe accompagnato al cimitero degli inglesi per recitare in situ le ceneri di Gramsci, come un voto da portare a compimento per chiudere il capitolo liceale, ma forse anche il pellegrinaggio iniziatico per trovare la giusta collocazione nel mondo degli adulti.
Promesse, conferme, iterate tautologie, verrò stai tranquillo perché tanto devo venire, suggerimenti e rimproveri, e sette ore di strazio proprio nello scompartimento sulle ruote a farmi scorticare quella parte dei reni rimasta ancora al suo posto. Ci vediamo Manu.

La maremma laziale, i profili dei colli dei Rasenna, dove avrei voluto vivere in qualche assurda vita precedente.

Avrei speziato il vino in crateri di bucchero, deliziato gli amici con scherzi conviviali, avrei danzato atletiche figurazioni in nuda leggerezza, drappeggiato di foglie di mirto tra i capelli e lasciando in mostra il mio sesso ciondolante come un pigro ornamento. Affondo il mento nel petto e lascio che le immagini girino liberamente associandosi in modo assurdo, in attesa del sonno. Dove ho messo lo strigile? Qualcuno ha visto il mio strigile?



La Casa delle Madri di Daniele Petruccioli

    Mi sono deciso a scrivere due righe su questo romanzo che mi ha immerso così bene in una realtà non mia e che mi ha tenuto lì sotto sino...