venerdì 24 luglio 2020

Un racconto inedito


altalena-storia-vezzani

di Giordano Vezzani


Si trovò a passare di lì, quasi per caso. Gli venne spontaneo accostare e scendere per guardare meglio. L’edificio principale sembrava essere rimasto sostanzialmente lo stesso, mentre tutto il resto era stato preso e calato nel traffico di una città rumorosa e affollata. Gli spazi verdi erano stati sostituiti con la solita sequela di palazzi anonimi dagli infiniti terrazzi privi di vita.
Il vicino parco della Rimembranza aveva perso la protezione di un’alta cancellata di ferro battuto dal sapore déco, così come le siepi di bosso e ligustro che lo circondavano. Ora gli appariva come una landa deserta tra gli alti cipressi rimasti e qualche leccio sfoltito al limite della sopravvivenza. Dove c’era la cascata tra i massi di calcare di grotta, ora si vedeva un alto muro di cemento armato con scritte e sovrascritte di artisti adolescenti amanti della vernice spray. Niente a che fare con i murales. Chissà mai se Banksy sarebbe mai passato da queste parti! Altamente improbabile, almeno quanto che possa nascere un vulcano nel centro del Golfo.
Giordano si ricordava perfettamente degli anni dell’asilo. Le suore cappellone gestivano la scuola materna non molto distante da casa sua in quello che era collegio, asilo, convento, santuario. Quel breve tragitto, piazza Ricasoli, via Parma, Parco della Rimembranza, era rimasto indelebile nella sua memoria. Oggi avrebbe dovuto resettare tutto e fare un upgrade.
Il parco si estendeva sulla superficie di una collinetta e aveva tanti scalini e ancor più viottoli intersecati a formare una rete di labirinto. Tra tutti gli alberi primeggiavano i grandi lecci primitivi e i cipressi centenari. L’austerità del luogo la recepiva allora attraverso un senso di disagio, di deferente timore che lo faceva stare sempre accanto alla mamma e a sbirciare di continuo qua e là in attesa di un qualche evento, di provare paura.
C’era anche una grande vasca, dove galleggiavano erbe, ninfee e tutte le porcherie che i ragazzini vi gettavano. In una certa stagione l’acqua si intorbidiva e virava al verde scuro. Allora Giordano diventava un assiduo frequentatore del parco. Le tante macchioline nere che si muovevano a rapidi scatti erano naturalmente girini. Mollava da qualche parte sia il cestinetto della merenda, di giunchi intrecciati, con il suo simbolo personale, quattro palle celesti in un quadrato, sia il grembiule a quadretti anch’esso personalizzato con lo stesso ricamo. Giordano si dava da un gran daffare a prenderne il più possibile con le scatole del formaggino Mio o con le casette di plastica ripiene di cioccolato dal tetto messo a coperchio.
Madre Teresa era una suora giovane, non bella e con lo sguardo duro e vigile. I suoi occhi erano sempre il punto di riferimento della giornata. Un libro era lasciato aperto su un leggio di fronte ai banchi per quella che era una sorta di dottrina permanente. I banchi, gli stessi di legno dipinto di nero, erano dello stesso tipo che avrebbe ritrovato sino al ginnasio. L’Inferno veniva rappresentato con un coacervo di diavoli e diavolerie in un’orbita di rosso. Ovviamente si sprecavano code sagittate, zoccoli e forconi incombenti. L’illustrazione era fatta per terrorizzare e con lui ci riusciva piuttosto bene. Per gli anni a venire i suoi incubi si sarebbero animati di un diavolo rosso con la barbetta rossa e due corna caprine, rosse pure loro. Giordano spalancava gli occhi e tendeva gli orecchi alla voce cupa, cavernosa di suor Teresa. Non sapeva però allora di essere altamente suggestionabile.
Le attività che la sua memoria privilegiava erano quelle all’aria aperta, intorno alle tartarughe del giardino, oppure attorno alla suora che intonava Santa Lucia e dava alle fiamme i fioretti dei bambini. Madre Teresa distribuiva sempre nuovi fogli con il loro nome al centro. Dopo aver fatto disegnare una cornice di fiorellini, si faceva promettere che avrebbero compiuto una buona azione ogni giorno e colorato un fiore in corrispondenza della cornice. La suora raccoglieva poi le pagine finite, con i fioretti che dovevano essere bruciati, perché in questo modo sarebbero saliti in cielo dalla Madonna e l’avrebbero resa felice. Così lei diceva.
Il refettorio era una tavolata a ‘U‘ per tutto il salone. Al centro sedevano la madre superiora e le maestre. Giordano odiava la minestra di verdura e gli immancabili pezzi di cipolla bianca che rifilava al rotondeggiante compagno, altrimenti c’era il pavimento. Quel suo compagno era solito mettersi le dita nel naso e passarle poi in bocca. Una volta gli chiese perché mangiava le caccole. Lui rispose offeso che quelle non erano caccole, ma una medicina che la sera prima la mamma gli aveva messo nel naso. Vicks Vaporub. Sembra che quella mamma facesse un gran uso di questa medicina che doveva infilare a palettate nel naso del figlio.
Il pomeriggio bisognava dormire per forza. Madre Teresa rabbuiava la stanza. Impostava tutti, uno per uno, a braccia conserte sui banchi, a capo reclinato e poi sorvegliava dalla cattedra. Giordano guardava il suo vicino ciccione e lo invidiava perché lui si addormentava subito e si risvegliava solo al momento di uscire. Lui non ci riusciva mai. Cercava di far passare quelle due interminabili ore scambiando bisbiglii, ammiccamenti e altri segnali con altri nelle sue condizioni, tuttavia la suora inesorabile li induceva al silenzio e all’immobilità. Il casino scoppiò quando durante un’ora di riposo Giordano si prese un violento schiaffone che gli lacerò il labbro. Il casino fu quello che fece sua madre e da allora, dopo molte scuse, baci e qualche lacrima, lui godette di maggiore considerazione e libertà di movimento.
Le recite tenevano tutti su di giri. Si preparava la scena, si studiavano le poesiole, le canzoni, i movimenti segnati col gesso. Giordano ancora conservava una vecchia foto di uno di quei momenti. Ogni volta che sua madre gliela mostrava rammentava lo stesso fatto con le stesse identiche parole. Ad un certo punto della recita tutti i bambini avrebbero dovuto lanciare un garofano verso la superiora. Lui, da sempre distratto, era rimasto seduto e quando si accorse di quello che stava succedendo, si alzò di scatto. Ormai solo e anacronistico gettò il fiore dicendo: “Buon Natale alla madre superiora!” La sua voce solista risultò come l’eco del coro precedente di tutti gli altri compagni e l’effetto fu un clamore di risa che lo immobilizzarono sul proscenio fino a che qualcuno non lo riportò al suo posto.
Anche i preparativi del Carnevale erano molto attesi e cominciavano assai prima. Bisognava preparare i coriandoli e la Pentolaccia. Era bello sentirsi importanti e collaborativi. L’esito della festa dipendeva da loro. Sulla terrazza le suore avevano lunghe strisce colorate da fare a pezzetti. Le piccole mani confezionavano coriandoli varianti dal millimetro a diversi centimetri. Era un lavoro stancante, ma più si stancavano e più pregustavano il momento in cui avrebbero lanciato i coriandoli. Ognuno consegnava a suor Teresa ciò che potesse essere messo nello scatolone della Pentolaccia. Chi portava noci, chi castagne, chi bagiggi, caramelle, giocattoli, fumetti. La Pentolaccia appariva enorme e di grande effetto, tutta ricoperta di carte colorate e decorazioni. A manovrare la corda nella carrucola era una suora, tanto buffa con quel movimento su e giù accompagnato da gridolini, rossori, sbuffi, da un certo disordine della persona. Il giorno della Pentolaccia vedeva il pubblico della recita: tutte le suore, qualche genitore e quelli delle elementari, spettatori passivi e forse anche un po’ invidiosi, perché a loro non toccava nulla. Ansiosi e seduti sulle panche i bambini dell’asilo venivano bendati a turno e portati nel posto prestabilito per colpire con una mazza, del tipo da baseball, la Pentolaccia. Era gratificante sentirla cedere, indovinare i tonfi degli oggetti sul pavimento, il rimbalzare secco delle noci, ancor più ancora della raffa finale, proni a braccia aperte nello slancio.
Giordano ebbe un sussulto. Sentì il colpo secco delle ruote di uno skateboard e un’ombra colorata sfrecciargli accanto. Altri ne seguirono a ruota e temette che la mandria potesse travolgerlo. Invece il gruppo urlante si diresse per una stradina laterale perdendosi in essa con l’effetto Doppler. Pensò ai suoi malinconici carrettini fatti di tavolette, chiodi e cuscinetti che lo zio meccanico gli regalava per le feste. Allora le sue scarpe avevano sempre i tacchi consunti per il troppo frenare. Si guardò istintivamente le scarpe.
Risalì sull’auto e si diresse altrove.

sabato 22 febbraio 2020

Il senso dell'amicizia e la funzione del Tempo


Riapro il blog dopo molto tempo. Queste pagine sono così poco frequentate da me e dai lettori che mi ricordano un diario segreto, di quelli che si consultano nelle fiabe di magia solo nei momenti speciali. Dovrei esserne dispiaciuto, invece penso che se dovessi usare il mio tempo per gestire il blog e intrattenermi con i followers, avrei meno tempo da dedicare alla scrittura e alla lettura. Ci sono blogger che conducono una vita frenetica per questo e chissà se riescono a dormire. Spero che abbiano il loro bravo interesse a vivere la vita davanti a uno schermo, altrimenti la nevrosi e la scimmia da web li prevaricheranno.
Se, però, ho deciso di scrivere una pagina una ragione speciale ci sarà! Infatti! Mi è capitato di leggere un romanzo uscito lo scorso autunno, più o meno in contemporanea con il mio Tu l’hai visto Easy Rider?. Si tratta di L’essenza stessa di Alessandro Brusa.


Il libro mi è piaciuto per diversi motivi. Intanto perché si fa leggere. Il linguaggio è ben dosato tra descrizione e narrazione e soprattutto dialoghi, che rendono scorrevole la lettura, nonostante l’introspezione continua dei personaggi. La loro caratterizzazione si accumula nel tempo attraverso il loro agire, il loro esprimersi e non è imposta dall’autore. Io l’ho letto tutto d’un fiato e ho goduto della storia narrata, seppure a volte inverosimile per come si spostano nello spazio e nel tempo i protagonisti, convinto che il mondo reale ci possa sorprendere allo stesso modo.
Tuttavia la cosa che mi ha colpito di più è l’affinità tra il mio romanzo e questo di Brusa nel trattare l’amicizia tra due persone che parte dalla prima gioventù sino alla mezza età. Ric e Luca sono entrambi eterosessuali come Manu e Jacopo sono omosessuali. Quanto c’entri la sessualità nella loro amicizia è tutta una scommessa. L’amicizia, quella vera, dovrebbe travalicare il sesso, ma implica inevitabilmente un’attrazione verso l’amico, che sia di natura psichica o “a pelle”.  Il sentimento dell’amore nell’amicizia, secondo me, ha una complessità tale che nulla ha da invidiare al sentimento dell’amore nel senso più comune e, a volte, i confini sono piuttosto sfumati. I mie protagonisti si amano, come amici, come fratelli. Hanno bisogno della fisicità, di un contatto e della presenza dell’altro. Di sicuro Ric lo richiede per la sua maggiore fragilità rispetto a Manu. Ric poi rispetto a Luca ha una sessualità più “aperta”, come a dire che la loro somiglianza finisce nel momento in cui comincia la loro individuale personalità, quella che ci rende tutti unici, diversi gli uni dagli altri.

Un altro aspetto che accomuna questi personaggi è poi la personale recherche. Solo Manu sembra avere trovato nel lavoro di medico un senso alla propria esistenza. Gli altri tre devono attraversare tutto il romanzo per arrivarci. Alessandro Brusa fa compiere ai propri personaggi un percorso a ritroso nel tempo per ritrovare ciò che realmente conta nella vita, l’essenza di ciò che conta nei rapporti umani, che è poi quello che a sua volta dà senso a tutto il resto. Non è facile “esserci” per gli altri. Ѐ qualcosa che si impara vivendo e a volte ritornando in modo ciclico sui proprio errori.
A me ha fatto anche molto piacere vedere come due generazioni a confronto, come quella dei due autori, in fondo esaltino la stessa cosa: l’amicizia. Non che il tema sia nuovo, basti pensare a Due di due di Andrea De Carlo. La differenza magari è nella Storia perché anche i sentimenti e i moti dell’anima si storicizzano. Nel mio romanzo quel sentimento, così forte, è il collante  sentito e condiviso da gran parte di una generazione degli anni Sessanta. Un fenomeno che poi si è spento nelle lotte politiche, più reali, che hanno spazzato via ogni ideale di cambiamento favolistico del mondo e di una umanità finalmente ravveduta. Nei decenni più recenti, e forse anche nel romanzo di Brusa, il senso dell’amicizia è stato più legato al gruppo ristretto o al sentire individuale, che a un sentimento generale.
Naturalmente ci sono altre tematiche in entrambi i romanzi che li fanno scivolare in corsie di scorrimento separate. Lascerei, però, al lettore il piacere di scoprirle. Alla prossima.

La Casa delle Madri di Daniele Petruccioli

    Mi sono deciso a scrivere due righe su questo romanzo che mi ha immerso così bene in una realtà non mia e che mi ha tenuto lì sotto sino...